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Alcune riflessioni di Dario Carta sulla Conferenza dei giovani italiani nel mondo

Dal 10 al 12 dicembre si è svolta a Roma ospitata dalla FAO la prima Conferenza mondiale dei giovani italiani nel mondo che ha raccolto circa 414 delegati, giovani di seconda e terza generazione che occupano spesso delle posizioni di preminenza (leggasi direttori di azienda, liberi professionisti, professori ecc.);

oltre a questi sono stati invitati altri 200 giovani residenti in Italia (tra i quali anche chi scrive) selezionati coinvolgendo vari attori: Regioni, Partiti, Sindacati, Confindustria, il Ministero della Gioventù, il Ministero dell’Istruzione e la Consulta Nazionale dell’Emigrazione. Malauguratamente la conferenza è stata come dire rattristata dall’incessante maltempo che ha funestato la città in quei giorni, ma soprattutto segnata dall’articolo di “Libero” del 11 dicembre a firma di Feltri (apostrofando papponi i delegati) che ha accompagnato in modo strisciante il proseguo dei lavori. Ma non è comunque questo il luogo per approfondire e dar seguito la sterile polemica feltriana.

I delegati erano in maggioranza discendenti di italiani di seconda e terza generazione, tuttavia non sono mancati, seppure in misura minore, i rappresentanti di quella più recente emigrazione italiana verso l’estero, che è stata variamente definita come “fuga di cervelli” (dai lavori peraltro è emerso come questa definizione non piaccia agli emigrati) o come emigrazione specializzata. Del resto, non dobbiamo dimenticare che, nonostante l’Italia sia diventata soprattutto un paese di immigrazione, i flussi di italiani verso l’estero non sono scomparsi del tutto, anche se hanno cambiato volto rispetto al passato e soprattutto dimensione (a titolo esemplificativo durante gli anni Novanta del Novecento sono espatriati circa 45mila italiani l’anno). I lavori della Conferenza, che sono stati preceduti da “preconferenze” continentali l’8 e il 9 dicembre, sono stati aperti ufficialmente il 10 dicembre alla Camera dei Deputati di fronte al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e ai presidenti di Camera e Senato, l’on. Gianfranco Fini e il sen. Renato Schifani. Naturalmente non poteva mancare il discorso  dell’on. Mirko Tremaglia visto che è stato, come ha orgogliosamente rivendicato, “il Ministro, l’unico Ministro per gli Italiani nel mondo” ricordando inoltre di aver “donato la mia vita agli Italiani all’estero”. Una cerimonia ufficiale molto solenne, dato il luogo e i partecipanti, nella quale, così almeno emerge leggendo gli interventi a distanza di qualche giorno, la retorica celebrativa dell’italiano nel mondo spesso si è confusa con l’esigenza della conservazione e della trasmissione della memoria dell’emigrazione.
 
Comunque la parte più proficua e interessante dei lavori è stata quella svoltasi al di fuori del protocollo ufficiale e che si è dipanata all’interno dei gruppi tematici. Questi gruppi hanno lavorato su cinque temi emersi negli incontri precedenti organizzati nel corso del 2007 e 2008 in 22 Paesi dal CGIE e dai rispettivi Comites. Queste le tematiche:

    Identità italiana e mutliculturalismo
    Lingua e cultura italiana
    Informazione e comunicazione
    Mondo del lavoro e lavoro nel mondo
    Rappresentanza e partecipazione

I cinque gruppi dopo animate e accalorate discussioni sono giunti all’elaborazione di un documento di sintesi finale che è stato presentato in sessione plenaria il 12 dicembre. Dai documenti emerge soprattutto la voglia dei giovani di partecipazione ma anche l’esigenza di un loro riconoscimento, sia da parte dei Comites sia, soprattutto, da parte del Governo e del popolo italiano. E a tale proposito nel suo intervento conclusivo il Sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, ha chiesto ai convenuti di aiutarlo nel modificare l’odierna percezione che si ha in Italia delle nostre comunità all’estero, ricordando inoltre che purtroppo oggi sono solo una parte gli italiani residenti in Italia che vede nei connazionali nel mondo una risorsa.

Un riconoscimento molto sentito e richiesto con vigore soprattutto dai giovani imprenditori che vorrebbero difendere, e vedere difeso dall’Italia, con maggiore forza il made in Italy. Un riconoscimento, è stato detto, che dovrebbe essere sostenuto e passare attraverso il potenziamento dei corsi di lingua italiana all’estero, che però purtroppo sono i primi ad essere penalizzanti dal taglio di risorse. Per far fronte a questa contingenza negativa è stato sottolineato che si dovrebbe lavorare sulla certificazione della qualità dei corsi di lingua e cultura italiana, oppure adottare nuove tecnologie che consentano la creazione di una scuola o di una università su Internet. Purtroppo però poco è emerso dei problemi che gli italiani possono incontrare all’estero, che vanno dall’integrazione nella comunità alla ricerca di un lavoro, oppure delle motivazioni che spingono gli italiani ad emigrare oggi, che sono a volte molto differenti rispetto a quelle di un tempo. Del resto, la Conferenza è stata contraddistinta soprattutto da un tono elogiativo degli italiani all’estero celebrando l’esistenza e la difesa di una sorta di “cultura italica”, senza quasi rendersi conto invece delle numerose problematiche legate all’utilizzo di una simile categorizzazione. In questo senso numerosi paragoni sono stati fatti con le politiche messe in atto da altri paesi europei (quali la Francia) a tutela della propria “identità nazionale”, ma come si sa non è possibile paragonare la Francia (e la sua francophonie) con l’Italia senza considerare le numerose differenze storiche che intercorrono tra i due paesi e che hanno determinato e continuano a determinare i legami con le proprie comunità discendenti.
 
Pertanto la figura tipica dell’italiano all’estero che è emersa dalla Conferenza sembra solo essere quella di una persona bene accolta e accetta, preoccupata soprattutto della rivendicazione di una origine e di una identità marcatamente italiana. Ma purtroppo sappiamo che non è sempre stato così. Al contrario, bisogna notare che solamente oggi che l’Italia è accolta all’interno della ristretta cerchia dei cosiddetti paesi “civili” e industrializzati che il discendente dell’italiano all’estero (quindi soprattutto le terze e in alcuni casi le seconde generazioni) è considerato con rispetto; mentre ancora negli anni Sessanta del Novecento in Svizzera e in Belgio (giusto per citare alcuni paesi, ma naturalmente se ne potrebbero aggiungere molti altri) gli italiani erano considerati al pari di animali da lavoro di cui potevano disporre liberamente, oppure nei migliore dei casi gente che urlava, mangiava e beveva troppo. E si badi che in alcuni casi questi atteggiamenti sono ora le caratteristiche che vengono rivendicate come tratti peculiari che contraddistinguono l’italiano. Non a caso è stato detto che “l’italiano è una lingua forte, che si parla ad alta voce; è una lingua che riempie gli spazi”.   
 

Ed è significativo che nulla di tutto ciò sia emerso; o meglio, solamente due giovani ricercatori hanno avuto il coraggio di denunciare durante la sessione finale anche i difetti dell’Italia di oggi, “smascherando” e cercando di ridimensionare la visione edulcorata dell’Italia all’estero fino a quel momento sostenuta (anche involontariamente); sottolineando invece con forza anche la nomea che una certa Italia ha all’estero, che va dai politici al sistema universitario.