Noi siamo partiti per l’estero nel ’37, per trascorrere 12 anni in Romania e tornare il Italia dai rifugiati del 48 (sorride con ironia; ricorda). Alla fine del ‘49 papá è riparte per l’Urugay; mamma, mio fratello ed io lo raggiungiamo dopo pochi mesi. Lí abbiamo trascorso 3 anni e, all’etá di 14 anni, ho cominciato a lavorare. Dopodiché siamo migrati in Ecuador, nel ‘53, e qui ha iniziato a lavorare anche mio fratello. Tutti lavoravamo nel azienda tessile; del resto l’unica azienda che c’era a Ponte Selva era la nostra di filatura do cotone: siamo una famiglia di tessili: é l’ereditá che ci halasciato il nonno. Attualmente continuo a laorare con i filati, ma le vendite son calate del 40%: le cose stan diventando difficili. Sempre piú operai qualificati partono verso la Spagna, ma sia io che mio fratello teniamo duro. Mio fratello ha quattro figli e nove nipoti; io invece ne ho 4 figli e otto nipoti: la famiglia é cresciuta.
Quali erano le relazioni che la sua famiglia ricorda avesse in Uruguay, con gli altri italiani?
C’erano tanti italiani in Uruguay; tanto é vero che, finita la guerra, in Sudamerica venivano mandati i seminaristi, perché in Italia non c’era da manigiare; papá fece da padrino ad un seminarista bergamasco che ricordo divenne poi Padre a Montevideo. Era il periodo della migrazione in cui “Le prendavamo noi”; ora siamo accusati di “Dar le bastonate” agli stranieri, invece. Pensi che il capocantiere che stava costruendo la fabbrica a Montevideo, era stato ucciso da una sbarra di ferro in testa. Non é stato facile. Ce ne hanno fatte di tutti i colori. Anche quando siamo andati in Argentina, dove mi sono sposato con Annamaria, bisognava rigare dritti. Soprattutto durante l’epoca di Peron, che obliggava gli italiani a nazionalizzarsi per ricevere piú voti. – La signora Annamaria Guerini precisa -: Ma in Argentina la colonia era talmente grande che non la si poteva sottomettere o gestire facilmente. Due anni fa, c’è stata alla Dante Alighieri una conferenza sugli ecuadoriani emigrati in Italia, sono state sollevate le lamentele e polemiche, ma io ricordo come siamo stati trattati noi, gli italiani, in Uruguay o in Argentina.
Che tipo di solidarietá ricorda di aver vissuto in Uruguay o in Argentina, e qual è la relazione con gli italiani che vive invece oggi in Ecuador?
Risponde il Vicepresidente Elio delle Vigne: Le cose sono totalmente cambiate: prima esisteva una relazione di colonia: non c’era internet, la televisione satellitare, il telefono cosí facilmente accessibile; tu aspettavi nei circolo italiano l’arrivo dell’italiano in vacanza che portava Il Messaggero, Il Resto del Carlino, La Nazione per leggere qualche cosa; questo giornale girava tra tutti quanti e quindi durava un mese. I ragazzi erano tutti compagni: si celebravano le feste assieme alle famiglie; era una relazione di colonia. Oggi tutto questo si é disgregato. Non so come sia in Argentina, in Uruguay o in Peru ad esempio, dove le colonie sono ancora molto grandi; ma in Ecuador, dove la realtá italiana é di una piccola colonia marginale, é cambiato tutto. Io ho potuto notare, e sono qui solo da 32 anni, il Presidente da 55 anni, la differenza con gli italiani che arrivano qui oggi. Ad esempio ci siamo incontrati il 2 giugno per festeggiare la festa della Repubblica nei giardini dell’Ambasciata: giovani, professori, di Ong, Onlus, che ad esempio non sanno nemmeno che esiste una Casa di Italia in Quito, o una Garibaldi (fondata nel 1882) in Guayaquil. Non gli interessa! Loro vivono la loro vita; si integrano immediatamente, stringono amicizia con altri europei, con ecuadoriani o con altri sudamericani; esiste una forte disgregazione che magari sará stata alimentata dall’apertura delle frontiere, o dal fatto che oggi tutti ci sentiamo cittadini del mondo. Invece noi arrivavamo, come dice il Presidente, “Con rispetto”, cosa che non accade in Italia con gli immigrati, cioé: noi quando siamo arrivati in un paese, ci si sottometteva alle leggi di quel paese. Ci vedevano bene, o ci vedevano male? Se ci vedevano male, abbassavamo la testa; se ci vedevano bene eravamo amici, come gli italiani sanno essere espansivi. Ad ogni modo siamo sempre stati persone che hanno rispettato il paese che li accoglieva: se bisognava camminare a destra, si camminava a destra; se dovevamo camminare sul marciapiede di sinistra, si camminava e si cammina a sinistra, cosa che non vediamo nell’attuale immigrazione multietnica, quando torniamo in Italia.
Non diciamo rumeni, perché ormai sono di cittadinanza europea; diciamo gli extraeuropei, vediamo che fanno un pó quello che vogliono. Il Presidente ad esempio ha sempre pagato i tributi, ha rispettato le regole dello Stato ecuadoriano e, aprendo una fabbrica, ha dato da lavorare a 160 persone. Oggi sembra che siano otto/nove mila gli italiani registrati con passaporto al Consolato; sedicimila calcolando quelli con le mogli: io sono sposato con una cittadina ecuadoriana, ma non la considero italiana perché non conosce le province d’Italia né l’inno italiano, nemmeno sa come inizia; mentre noi, peró, conosciamo l’inno ecuadoriano. Forse perchè ci piace sapere le cose. Da questi giovani italiani non abbiamo visto una partecipazione al circolo; i soci son attalmente ridotti a venti, da duecento che erano. Noi credavamo molto nel tricolore; credavamo nelle rimesse, perché all’estero eravamo mano d’opera: a scuola ci insegnavano che le rimesse degli italiani che lavoravano negli Stati Uniti erano valuta pregiata. Noi abbiamo ancora i conti correnti aperti in Italia; forse dovevamo aprirli qua, o negli Stai Uniti dove forse si guadagnano maggiori interessi! Questi giovani che noi vediamo qui, non si sentono italiani; forse qualche cosa non funziona nell’immigrazione; forse questa situazione di sentirci cittadini del mondo, ci fa perdere le radici.
– Il Presidente aggiunge- : Un esempio. Tutti i miei nipoti hanno il passaporto italiano; i miei figli; le nuore; due ancora no; ma non mi preoccupo di loro: mi interessa che lo sia la discendenza. Ció che resta sono le abitudini; noi abbiamo portato in Italia tutti i componenti della famiglia.
– prosegueDelle Vigne: io ho portato la maggiore di 26 anni, in Italia. Pavia: i Civici musei, la zona Garibaldina, i Cairoli, il Castello Visconteo. Io mi sentivo fiero. Parlo, parlo, le racconto; arriviamo alla zona romana: i sarcofaghi, le statue, il Muto col laccio al collo, ecc., e lei imbambolata; muta. Le chiedo se le interssa, se le piace, ma lei risponde “Quando andiamo a pranzo?”. Questo é forse un errore nostro, ma é anche un errore del Governo. Noi ci siamo impegnati a mantener viva la rappresentanza della cultura italiana: caso é la Dante Alighieri fondata nel 2000/2001, che non esisteva e noi, con il nostro tempo, denaro, energie l’abbiamo fatta sorgere. Siamo circondati da Fondazioni di rappresentanza della cultura francese, ad esempio, o il Collegio Tedesco. Peró non puó esser fatto tutto solo esclusivamente dagli italiani; bisognerebbe che anche il Governo, la “Madre Patria”, si ricordasse o facesse qualcosa, dia sussidi per una scuola italiana, ad esempio: sarebbe una soddisfazione per noi potervi mandare i nostri figli, con una direzione didattica italiana, dove non studino solo l’inglese, il che mi sembra giustissimo, perchè in Italia pochi lo sanno parlare; all’inglese qui danno maggiore importanza perché l’Ecuador é una dipendenza degli USA. Invece il Governo manda qui un lettore, un insegnante di italiano, che peró va ad insegnare all’Universitá Cattolica di Quito. Capisce?
Non diciamo rumeni, perché ormai sono di cittadinanza europea; diciamo gli extraeuropei, vediamo che fanno un pó quello che vogliono. Il Presidente ad esempio ha sempre pagato i tributi, ha rispettato le regole dello Stato ecuadoriano e, aprendo una fabbrica, ha dato da lavorare a 160 persone. Oggi sembra che siano otto/nove mila gli italiani registrati con passaporto al Consolato; sedicimila calcolando quelli con le mogli: io sono sposato con una cittadina ecuadoriana, ma non la considero italiana perché non conosce le province d’Italia né l’inno italiano, nemmeno sa come inizia; mentre noi, peró, conosciamo l’inno ecuadoriano. Forse perchè ci piace sapere le cose. Da questi giovani italiani non abbiamo visto una partecipazione al circolo; i soci son attalmente ridotti a venti, da duecento che erano. Noi credavamo molto nel tricolore; credavamo nelle rimesse, perché all’estero eravamo mano d’opera: a scuola ci insegnavano che le rimesse degli italiani che lavoravano negli Stati Uniti erano valuta pregiata. Noi abbiamo ancora i conti correnti aperti in Italia; forse dovevamo aprirli qua, o negli Stai Uniti dove forse si guadagnano maggiori interessi! Questi giovani che noi vediamo qui, non si sentono italiani; forse qualche cosa non funziona nell’immigrazione; forse questa situazione di sentirci cittadini del mondo, ci fa perdere le radici.
– Il Presidente aggiunge- : Un esempio. Tutti i miei nipoti hanno il passaporto italiano; i miei figli; le nuore; due ancora no; ma non mi preoccupo di loro: mi interessa che lo sia la discendenza. Ció che resta sono le abitudini; noi abbiamo portato in Italia tutti i componenti della famiglia.
– prosegueDelle Vigne: io ho portato la maggiore di 26 anni, in Italia. Pavia: i Civici musei, la zona Garibaldina, i Cairoli, il Castello Visconteo. Io mi sentivo fiero. Parlo, parlo, le racconto; arriviamo alla zona romana: i sarcofaghi, le statue, il Muto col laccio al collo, ecc., e lei imbambolata; muta. Le chiedo se le interssa, se le piace, ma lei risponde “Quando andiamo a pranzo?”. Questo é forse un errore nostro, ma é anche un errore del Governo. Noi ci siamo impegnati a mantener viva la rappresentanza della cultura italiana: caso é la Dante Alighieri fondata nel 2000/2001, che non esisteva e noi, con il nostro tempo, denaro, energie l’abbiamo fatta sorgere. Siamo circondati da Fondazioni di rappresentanza della cultura francese, ad esempio, o il Collegio Tedesco. Peró non puó esser fatto tutto solo esclusivamente dagli italiani; bisognerebbe che anche il Governo, la “Madre Patria”, si ricordasse o facesse qualcosa, dia sussidi per una scuola italiana, ad esempio: sarebbe una soddisfazione per noi potervi mandare i nostri figli, con una direzione didattica italiana, dove non studino solo l’inglese, il che mi sembra giustissimo, perchè in Italia pochi lo sanno parlare; all’inglese qui danno maggiore importanza perché l’Ecuador é una dipendenza degli USA. Invece il Governo manda qui un lettore, un insegnante di italiano, che peró va ad insegnare all’Universitá Cattolica di Quito. Capisce?
Presidente: lei faccia conto che appena sei mesi fa, dopo 45 anni, per la prima volta siamo riusciti ad ricevere la visita del Console alla Casa d’Italia, perché ci desse spiegazioni sulla migrazione, sulle documentazioni necessarie.
Che istruzione avete scelto voi per i vostri figli?
Le Spelmann, che sono scuole Salesiane. Pensi che quando venne Andreotti, disse che siccome eravamano una colonia cosi piccola, non si poteva propio pensare, investire per una scuola italiana. Noi in Ecuador non abbiamo versamenti all’INPS italiana; non esistono convenzioni.
Cosa direste circa l’appoggio che percepite come italiani all’estero dall’Ambasciata o da forme Associazionistiche di italiani?
Con la sua visita é la prima volta che riceviamo forme di interesse. Io non parlerei mai di Ambasciata o di Consolato. L’Ambasciata a promosso il Presidente Cavaliere; allora forse sí, si son ricordati di noi. Ma il problema non e qui: é a Roma. Il fatto é che o non siamo dentro, o siamo tanto lontani; quello che servirebbe é che manifestassero un maggiore interesse nei nostri confronti. Lei é la prima a farlo. Senza dubbio una profonda sensazione di abbandono dalle Istituzioni italiani. Noi siamo ancora iataliani e lo siamo sul serio; noi quando usciamo a cena, frequentiamo solo ristoranti italiani.
Presidente, quali aneddoti interessanti della sua vita qui in Ecuador, raconterebbe?
La cosa piú importante é che ci ha dato lavoro: questo é stato un esito enorme. La prima casa, i figli, i nipoti. L’Ecuador ci ha dato tutto quello che abbiamo; il benessere. Quando siamo arrivati, avevamo appena l’essenziale per vivere per un mese.
Cosa le manca dell’Italia?
Presidente: L’Italia manca sempre; noi pensiamo in Italiano. Preghiamo in italiano.
Delle Vigne: ci mancano gli odori e i sapori d’Italia.
Sig.ra Annamaria: la gente. L’italianitá resta.
Delle Vigne: non mi stancheró di ripetere all’Ambasciata, di proporre ad esempio che un lettore venga a leggere la Divina Commedia (io sono un amante di Dante) agli italiani, ai nostri figli. Magari si scoccerebbero, ma verrebbero. Insomma, cercare di trasmettergli questa cultura.
Pino Guerini, il figlio del Presidente e della Sig. Annamaria – Pino, tu tu senti piú italiano o piú ecuatoriano?
Metá, metá.
E in cosa ti senti italiano?
La famiglia, le tradizioni, la cucina, le amicizie.
Delle Vigne, lei di dov’è e come arrivó in Ecuador?
Io sono di Pavia; sono del ‘48, e arrivai in Ecuador nel 77, all’etá di 29 anni. Lavoravo alla Liquigas di Milano; la filiale dell’Ecuador era una tra le due piú importanti e mi manadaron qui per una sostituzione, come impiegato estraditato. Sono diventato dipendente della alla Agip, quando questa rilevó la Liquigas dopo il fallimento. Ora sto per andare in pensione.
É stato difficile per lei connettersi agli italiani che vivevano qui in Ecuador?
No, perché alla Liquigas c’era un capostabilimento che era socio della Casa d’Italia e gestore del Ristorante della Casa assieme alla moglie; fu colui che mi fece subito socio: mi fece pagare 4000 Sucre, il valore di due azioni; pensi che lo stipendio di un operaio era di 750 Sucre. Allora, se volevi mangiare un piatto di spaghetti, dovevi andare li. Suo padre, aveva fondato nel 61 il Circolo Italiano Dante Alighieri; quando l’Ambasciata volle fondare la Dante Alighieri, decadde il nome e cambió in Casa d’Italia.
Che opinione ha degli italiani in Ecuador?
Mah, ci son oquelli onesti, e quelli meno onesti. Nel complesso ritengo che quella italiana in Ecuador, sia stata una migrazione sana. Quando peró vedi che a Natale il Console deve portare i panettoni ai carcerati italiani, che sono italiani di passaggio, molesta perhé ci sono degli italiani che vivono qui da tanti anni, ma non vengono riconosciuti.
Signora Annamaria, marchigiana di origine, ma lombarda di acquisizione esattamente di dov’è?
Io sono del ‘35, mi chiamo Annamaria Pucciarelli e sono di Tolentino Marche. Dopo esser arrivata in Argentina con un viaggio che duró un mese, trascorsero 25 anni prima che potessi tornare in Italia. Sono ritornata solo dopo essermi sposata. Io andai in Argentina con la famiglia, dopo la perdita della mia mamma, che era morta di colera. Mia zia rimase in Argentina durante la guerra; mio padre invece tornó in Italia giusto prima della guerra, assieme alla seconda moglie. Mia madre era italiana, figlia di immigrati in Argentina. Poi ho sposato mio marito e, assieme a lui sono venuta in Ecuador.
Che relazioni viveva con le donne in Ecuador?
Frecuentavo un pó di donne italiane e un pó di ecuatriane. In Argentina avevo appena 14 anni e ho stretto facilmente amicizia per via della scuola. In Ecuador le amiche italiane erano le conoscenze di mia suocera: erano molto piú grandi di me; cosi non era facile. Diciamo che le mie amiche erano prevalentemente ecuatoriane sposate con italiani. Tutt’ora noi signore italiane che viviamoin Ecuador, abbiamo una Associazione, la Asamblea de Damas Italianas, ma siamo oramai molto poche; tre o quattro.
Che differenza tra la figura della donna che aveva conosciuto in Italia, e quella che ha incontrato in Ecuador?
É un pó differente: le donne ecuatoriane erano piú evolute di noi; piu spigliate, noi eravamo piú sottomesse forse al marito, non lo so: diciamo che loro erano piú libere. Io le ammiravo perché io non ho mai potuto, fino ad oggi che son anziana e che ormai nessuno puó comandarmi; eri sempre un pó sottomessa: perché hai 4 figli, perché lui lavora dalla mattina alla sera, ecc.
Qual é il piatto forte italiano che cucina?
O i vincisgrassi o la parmigiana di finocchi (Sorride).
Antonella De Bonis