Angelo Mosso (Torino, 30 maggio 1846 – 24 novenbre 1910), nato in una famiglia operaia, si laureò in medicina a Torino nel 1870 e svolse la professione di ufficiale medico a Firenze, Napoli, Salerno e Messina. Ricercatore a Firenze e Lipsia, ritornato in Italia divenne professore di farmacologia. Nel 1904 fu nominato senatore. Diverse le sue ricerche e pubblicazioni, tra le quali Vita moderna degli italiani (Milano, Treves, 1905), raccolta di saggi sull’Italia dell’epoca e sull’emigrazione. Interessanti risultano i brevi interventi dedicati ai contadini del Mantovano e alla pellagra, la malattia della fame o delle quattro D: dementia, dermatitis, diarrhea, death. Ci aiutano a comprendere la situazione sociale ed economica nella campagna mantovana (ma anche nel Veneto, Friuli, Piemonte ed Emilia) tra 1850 e primi decenni del 1900, anni in cui migliaia di Mantovani (e italiani) scelsero l’emigrazione verso le Americhe e l’Europa.
Mantova, settembre 1905
Sono venuto qui per conoscere l’ambiente che diede rapido sviluppo al socialismo fra i contadini. In causa della pellagra, nessuna regione d’Italia fu studiata meglio dai medici. Leggendo gli scritti dei socialisti sulle condizioni dei contadini, tutto mi sembrava chiaro e semplice; però giunto sul luogo, appena volli comprendere la realtà fisica delle cose e penetrare collo sguardo sotto la superficie dei fenomeni sociali, immediatamente le idee si confusero ed i fatti si misero in contrasto con le teorie.
Gli operai che lavorano nei latifondi sul basso Mantovano stanno meglio dei contadini che coltivano i propri poderi nella parte alta di questa provincia. Le condizioni dell’agricoltura qui furono tristissime fin verso il 1880; quando i grandi proprietari cominciarono a comprendere l’utilità di una coltura più razionale della terra. Migliorata la tecnica, cresciuto il reddito, crebbero anche le mercedi: e pel fatto noto, che il socialismo si sviluppa dove esiste un certo grado di elevatezza intellettuale e di benessere del proletariato, dopo alcuni anni le classi lavoratrici cominciarono ad organizzarsi colle leghe di resistenza. L’agricoltura, nella grande proprietà, fu ridotta ad una industria, dove gli operai sono contadini. Questi si dividono in “bifolchi” e “braccianti” (nel linguaggio del paese li chiamano “ obbligati” e “spesiati”): il bifolco lavora tutto l’anno con un salario fisso; il bracciante vien pagato a giornata.
Calcolando la spesa della pigione, il granoturco, il frumento, il vino e quanto riceve in danaro, un bifolco guadagna circa quattrocento lire l’anno; altrettanto guadagna lo spesiato o bracciante. Con tale mercede non potendo campare una famiglia, occorre fare qualche altro piccolo guadagno. Non posso fermarmi ad esaminare i patti colonici che variano da una zona all’altra, e riferisco qualche appunto preso dal mio taccuino di viaggio.
Ho passato un pomeriggio delizioso; nei campi, in vettura, insieme ad un amico che mi condusse nei suoi poderi. Mi raccontò le peripezie dello sciopero scoppiato il 17 marzo 1902, che durò più di un mese e terminò colla sconfitta dei contadini. Gli scioperi isolati erano stati prima assai frequenti; e solo nel 1902, la Federazione delle leghe organizzò un movimento più vasto; discusso lungamente e proclamato con entusiasmo; pel quale (in causa alla coalizione dei padroni) i contadini perdettero i vantaggi che erano riusciti ad ottenere colle scaramucce che avevano preceduto la grande battaglia. In sette comuni del Mantovano furono più di cento i grandi proprietari, che videro disertati i campi, sospesi i lavori delle vigne, delle risaie e dei prati.
Un fatto caratteristico di questo sciopero, fa onore ai contadini. I bifolchi (nonostante le insistenze dei caporioni che dirigevano il movimento) non vollero abbandonare le stalle: sarebbe stata questa l’arma decisiva contro i padroni, ma non vollero servirsene. Un bifolco disse al mio amico: “povere bestie, perché devono soffrire, se noi siamo in lotta con lei!”. E mi raccontava che nello sfratto, quando dovevano cedere la casa e la stalla ad altri contadini, fatti venire da lontano per supplirli, i vecchi bifolchi prima di andarsene ripulirono ancora le stalle e diedero da mangiare agli animali.
La vettura correva sulla strada biancheggiante, e le grandi praterie splendevano al sole, circondate da platani che fanno una cornice caratteristica sulle sponde dei fossi. Se mancassero gli alni dalle foglie glutinose ed i platani, la grande pianura del Po, tanto ricca di acque, sarebbe simile ad un paesaggio olandese. D’un verde tenero quasi primaverile l’erba, d’un azzurro chiaro il cielo, una nebbia sottile e radente che celava i monti lontani, chiudendo l’orizzonte, dava l’impressione vaga dell’infinito nel quale si confondono le cose.
Guardavo le mandre disperse sui prati; le vacche col mantello grigio chiaro, quasi bianco, ed i buoi più scuri e bruni; seguivo gli aratri che solcavano profondamente la terra nera: un fanciullo davanti e il bifolco col lungo pungolo guidavano tre o quattro coppie di buoi per ogni aratro, a me risuonavano nel cuore le parole “povere bestie” che mi avevano aperto uno spiraglio nuovo per comprendere l’anima del contadino. Pensavo con amarezza che proprio qui, dove i bifolchi sono tanto buoni ed affettuosi da amare le bestie colle quali dividono la fatica, proprio qui la lotta di classe degli operai contro i padroni è più intensa. La natura radiosa spargeva intorno la gloria di una pace profonda, trionfante impassibile sull’agitazione e sulle lacrime dell’uomo.
Un altro fatto caratteristico dei moti agrari dell’Italia, è la partecipazione della donna alla lotta. Quando fu dichiarato lo sciopero nel Mantovano le donne vi presero parte con grande entusiasmo. Anche nei moti della Sicilia, al tempo dei Fasci, le maggiori noie i soldati le ebbero dalle donne. Cinquecento insieme a Milocca assalirono la caserma dei carabinieri, sfondarono le porte e liberarono gli arrestati. Non un uomo era con questo esercito di furie, ed i carabinieri stettero coi fucili alle finestre senza aver coraggio di far fuoco. La comparsa delle donne in così gran numero negli scioperi è un fatto che non si osserva nell’Europa del Nord. Forse la ragione di questa differenza nella psicologia delle folle fu compresa dal Taine quando scrisse: “La vie et le naturel du Midi étant plus féminins, les femmes son sur leur terrain et commandent.”
Nell’Alto Mantovano
Per conoscere come mangiano i poveri, trovai difficoltà maggiori che non avessi immaginato; perché la gente si vergogna di essere troppo povera, e spinge l’amor proprio al punto da rifiutare un soccorso anche quando soffre la fame. Tutti sanno che la miseria peggiore è quella dei decaduti i quali vivono di privazioni; e che sono le persone bisognose, quando non vogliono mostrare in pubblico la loro condizione disagiata, quelle che soffrono di più: ma io non poteva immaginare che un sentimento simile di orgoglio fosse comune nella plebe che vive nei campi, e fu per me uno strazio conoscere tanta gente che di nulla è più vergognosa quanto di esser colpita dalla pellagra, che considera come la malattia della miseria e il segno incancellabile della povertà estrema.
Darò alcuni esempi per mostrare quanto sia difficile soccorrere i miseri, e mettere un riparo alle sofferenze del popolo. In alcuni comuni dove abbondano i pellagrosi le congregazioni di carità ed i municipi aprirono istituti di beneficenza col nome di “pellagrosari”. Per alcuni mesi dell’anno quivi si curano i contadini con un vitto migliore; si offre loro carne e pane con minestre sostanziose; ma i contadini non vi vogliono essere ricoverati.
Si può supporre che il dover star chiusi lontano dalla famiglia e sospendere i lavori dei campi sia la causa di questa avversione, perché in fondo si tratta di una malattia che non ha bisogno di cura, tranne quella del vitto: ma non è questa la causa: infatti nell’intento di prevenire la pellagra si pensò ad istituire le cucine economiche, ma anche di queste non se ne vollero servire. La ragione psicologica di tali fatti contrari allo spirito della beneficenza, appare sotto altre forme nelle grandi città dove pure le cucine economiche non poterono svilupparsi. In campagna la cosa è più grave, perché sono cucine economiche nelle quali si mangia senza pagare. So di municipi i quali, col sussidio delle provincie, impiantarono le cucine: presero un locale adatto, e, messe a posto le pentole e le tavole, pubblicarono il giorno e l’ora che avrebbero cominciato a regalare la minestra, un piatto di carne con verdura, pane e vino ai poveri. Nessuno si presentò, o furono così pochi che si dovettero chiudere le cucine pubbliche. Tale è il sentimento nobile che avvolge gli strati inferiori della società donde sorge l’anima incosciente e il carattere del nostro popolo. Solo il lavoro soddisfa i contadini; ogni altra forma di beneficenza è respinta come una umiliazione. Non è orgoglio ma l’inspirazione sana di una elevatezza del pensiero.
Visita a una famiglia, Solferino, 21 settembre 1905
Trascrivo alcuni appunti presi dal vero; e la descrizione che faccio di una famiglia può applicarsi a parecchie altre simili che oggi ho vedute col medico, per studiare la pellagra. In fondo ad un vicolo, passando davanti alle umili case dei braccianti, apriamo un cancello fatto con rete metallica per tener chiuse poche galline; alcuni panni logori, a brandelli, stesi a sciorinare tra i gelsi, annunciano l’estrema miseria che moviamo ad incontrare. In una stanza a pian terreno, senza pavimento, il medico mi presenta un uomo di forse cinquant’anni, che non può camminare bene perché la pellagra si è localizzata al midollo spinale. Il colore della lingua, l’aspetto della pelle, le mani squamose, sono caratteristiche. La moglie ci racconta che tutta la famiglia vive con una lira e mezza che guadagna ogni giorno il suo figliuolo lavorando in campagna.
Pagano la pigione della casa coltivando pel padrone tre campi che fanno circa un ettaro di superficie. Dalla stanza del piano superiore (che forma tutto l’alloggio con questa in cui siamo) scese una donna con un bambino in braccio; sembrava una ragazza, bionda ed anemica, di sedici anni, e mi disse che ne aveva ventitrè: un altro suo figliuolo, un poco più grande, era andato nel paese. D’inverno il marito, che è l’unico sostegno della famiglia, guadagna solo una lira al giorno. Ma non è possibile campare con tale entrata, perché devono fare tre volte al giorno la polenta; ed ogni polenta costa trenta centesimi. Chiesi se ne avevano della fredda; me la portarono sul tagliere; vidi che era pallida e notai che era mal cotta.
– La legna costa (disse il medico) e vanno a cercarla nei campi degli altri. Il sindaco che mi accompagnava si strinse nelle spalle come per assentire che era un furto non punito, il quale si tollera per compassione.
– Ma il figlio che lavora per una lira e mezza è spesato?
– No: parte il mattino con un po’ di polenta e torna la sera a mangiare colla famiglia.
– Cosa avete mangiato oggi colla polenta?
– Abbiamo comprato trenta centesimi di salame; ma ieri mangiammo solo cavoli con aceto e cipolle, e domani compreremo un po’ di merluzzo per il pranzo della sera. Vino non ne beviamo mai, e il pane lo vediamo di rado.-
La cosa che mi fece più impressione è che in Solferino, una popolazione di millecinquecento abitanti, quasi la metà sia povera come questa famiglia. La Congregazione di Carità viene in aiuto colla distribuzione di alimenti; regala pane, carne, lardo; ma in modo insufficiente, perché sono troppi i poveri. La proprietà è divisa; ma il piccolo proprietario che forma l’onesta famiglia riunita in una casa, è un sogno; perché pochissimi hanno un podere abbastanza esteso per star bene.
In un comune trovai solo tredici famiglie che possono pagare il medico. A Bussolengo sono inscritti per la cura gratuita anche due consiglieri comunali; il che dimostra quanto debba esser povero il paese. Mancando i mezzi pecuniari indispensabili per far fruttare meglio la terra, i proprietari nell’alto Mantovano stanno peggio dei braccianti che lavorano sui latifondi. Nei libri dei socialisti le previsioni e le fasi evolutive del progresso nel rapporto cogli interessi materiali, appaiono semplici ed evidenti; quando però si raffronta la natura colla dottrina, subito la tenebra dell’ignoto stende un velo d’incertezza sopra le conquiste che dalla ragione si credevano assicurate. Vedremo sul monte Baldo essere tra i proprietari maggiore la miseria e più terribile la pellagra.
Nella Sicilia e nell’Italia meridionale il contadino sta meglio che altrove e nella Sardegna il proletario mangia più carne; ed il vino discreto lo si beve da per tutto eccetto che nell’Alta Italia. Per una strana contraddizione sono le provincie meno povere quelle che soffrono maggiormente la fame. Per quanto la cosa sia inaspettata, non sono io il primo a notarla.
Forse per tradizione nell’Alta Italia mangiano tutti volentieri la polenta; ma quando d’inverno scemano, o cessano del tutto i guadagni, nei tempi di carestia, appena crescono di prezzo i cereali, moltissime persone si nutrono solo di polenta. I poveri la preferiscono perché possono saziarsi di più, spendendo meno. Chi ha provato la fame sa che il tormento maggiore non proviene dalla debolezza, ché anzi qualche volta (come nella fatica) si produce un leggero esaltamento delle forze.
Per l’inazione, benché il sangue sia divenuto povero di materie nutrienti, non esiste un organo di senso speciale che possa avvertirci del “deficit” prodottosi nell’organismo. La sensazione della fame scompare dopo qualche giorno: quello che resta è la paura dei suoi effetti. Nei casi estremi il suo senso di sfinimento è meno tormentoso dello stringimento che si prova nello stomaco; si avverte come un vuoto dietro la bocca, donde il bisogno molesto di mangiare e l’ansia del deglutire. Un crampo doloroso fa sentire le contrazioni dello stomaco, perché nella fame cresce la sensibilità dei nervi nel sistema digerente. È un’angoscia profonda che abbatte e produce un’esaltazione disperata. In queste condizioni si mangiano anche le cose meno nutrienti pur di colmare il vuoto e di saziare l’istinto cieco della fame.
Benché il cibo operi solo in senso chimico, nel primo istante agisce in modo meccanico. Per abitudine ci sentiamo sazi quando lo stomaco è pieno; e per calmare subito la fame si deve distendere lo stomaco. Questo ci spiega perché la fame si localizzi in quest’organo. Gli Irlandesi abituati a nutrirsi di patate e distendere lo stomaco con una quantità abbondante di cibo, quando vanno nell’America, e cominciano a mangiar carne, non possono soddisfare l’appetito sebbene mangino carne più degli altri, perché essa tiene un posto troppo piccolo nel loro stomaco.
Per poco che i semi del mais, o granoturco, restino all’umido, subito prendono la muffa. Si sviluppano cioè delle pianticelle microscopiche di varia natura (che chiamansi aspergilli e penicilli) le quali generano per mezzo dell’amido dei semi alcune sostanze velenose. Il granoturco che cresce rapidamente e chiamasi “quarantino”, è il più pericoloso; giunge tardi a maturazione nell’autunno, lo si raccoglie nelle giornate piovose, e si altera più facilmente, perché non ha tempo di essiccarsi. Oltre a ciò è difficile tenere il granoturco sempre asciutto. Nelle case, nei magazzeni, dentro le barche, nelle stive dei bastimenti, da per tutto può essere colto dall’umidità, e appena lo attaccano le muffe diviene inservibile. Una grande parte del granoturco guasto viene dall’estero e specialmente dall’America del Sud donde si trasporta come zavorra; questo spiega come la pellagra compaia talvolta nei paesi dove non si coltiva il mais e si mangia solo quello del commercio. Gli effetti velenosi prodotti dalle muffe sono terribili. Il prof. Lombroso fu uno dei primi ad occuparsi di questa malattia, divinando col suo intuito le scoperte che vennero fatte dopo dai micrografi. Cominciano a manifestarsi disturbi intestinali con diarrea persistente; poi la pelle si desquama, compaiono eruzioni cutanee, succede l’anemia coll’alterazione degli organi e la manifestazione più temibile è quella delle malattie mentali. Qualche volta l’avvelenamento è così potente e rapido che gli ammalati hanno disturbi nervosi come quelli prodotti dal tifo: altre volte sono malattie lente del cervello che finiscono colla pazzia.
Nel 1902 venne emanato un decreto che vieta l’introduzione nel Regno del granoturco ammuffito o guasto: ma non è possibile frenare completamente questo commercio per la grande rapidità colla quale il mais si altera, e per l’ingordigia colla quale i poveri contadini persistono nel voler cibarsi di polenta come il nutrimento che può aversi a minor prezzo. Il granoturco sequestrato non dovrebbe servire che all’alimentazione del bestiame, alla fabbricazione delle fecole non alimentari od essere mandato alle distillerie per ottenerne colla fermentazione l’alcool; invece viene trafugato e messo in commercio mescolandolo coll’altra farina dopo averlo macinato. Di tutte le commozioni che provai studiando i contadini nessuna lasciò in me un ricordo più triste delle visite che feci in alcune provincie tormentate dalla pellagra. Alle altre malattie il povero si rassegna, come ad un destino inevitabile; ma con la pellagra si vergogna.
Come esempio scelgo la provincia di Mantova e riferisco alcuni dati presi dalla relazione presentata quest’anno al Governo dalla Deputazione provinciale. La pellagra è più diffusa nella provincia di Padova, Vicenza e Udine: cio nonostante preferisco citare i casi del Mantovano perché sono più importanti dal lato sociale; gli operai soffrono meno la terribile malattia che non i proprietari che mangiano peggio.
I pellagrosi nella provincia di Mantova il 15 novembre 1904 erano 1233 compresi i maniaci nei manicomi; e di questi pellagrosi 217 furono denunciati nell’ultimo anno. Ne guarirono solo 186 fra uomini e donne: cosicché ne rimasero ancora 1047 affidati alle cure dei medici. Questi sono distribuiti in modo diverso nelle tre zone in cui si divide la provincia; e stanno peggio i contadini che abitano nell’Alto Mantovano. Anche qui appare il triste esempio che non basta la divisione della terra per divincolarsi dalla miseria; il numero dei proprietari è maggiore nell’Alto Mantovano e sono più miseri e più stremati che dovunque.
Abitanti Pellagrosi
Alto Mantovano 47701 270 5,66 per mille
Medio Mantovano 130549 303 2,32 per mille
Basso Mantovano 137198 474 3,45 per mille
totale 315448 1047 3,31 per mille
Che sopra mille contadini del Mantovano ve ne siano più di cinque i quali soffrono la pellagra è un disonore per l’Italia; e come sono vergognosi i contadini di soffrire questa malattia che loro imprime le stigmate della miseria, anche la patria deve sentirsi umiliata. La barbarie dei popoli è meno umiliante di questa nostra miseria.
La pellagra (che manca nelle provincie più povere dell’Italia meridionale) la vediamo invece diffondersi anche nelle regioni dove i contadini stanno discretamente, come nella provincia di Novara. L’aumentato benessere della popolazione viene indicato dal diminuire di tale malattia. Riferisco alcune cifre che indicano il numero dei malati di pellagra curati annualmente in una serie di periodi di dieci in dieci anni: numero di pellagrosi curati nell’Ospedale Maggiore di Novara: 144 (1862); 126 (1872); 8 (1902). Si ha così una misura del progresso che si è compiuto spontaneamente. La diminuzione in trent’anni da 126 casi ad 8 rappresenta la scomparsa della pellagra dovuta al miglioramento economico della città di Novara: mentre i 1233 malati di pellagra della provincia di Mantova provano che i piccoli mezzi non producono alcun effetto visibile e che occorre una trasformazione radicale. Quando negli scioperi i contadini dicono ai soldati ed ai carabinieri che li minacciano colle armi “se non ci aiutiamo noi, nessuno ci aiuta” essi hanno ragione.
I pellagrosi sono gli elettori dei deputati socialisti. Fino a che sussisteranno la pellagra e la fame cronica è dovere nostro di combattere perché siano migliorate le condizioni dei poveri. Dobbiamo lottare perché il principio individuale che ora domina l’organizzazione economica non produca sì grave ingiustizia. L’ideale dell’Italia dev’essere che la Monarchia diventi un governo sociale.