Sono giovani laureati o diplomati, ragazze forse più dei ragazzi, ventenni e più… Sbarcano, si propongono di rimanere qualche mese, qualche anno, senza precise scadenze. L’attrazione prima è la lingua, vero passaporto per il mondo. Poi, in realtà, si agita sempre quel “sogno di Londra” così attraente anni fa come un’illusione collettiva per un modus vivendi più funzionale, con meno burocrazia, il clima di una società aperta e liberale, la complicità con tanti altri giovani. E, infine – aspetto nuovo in loro – la disponibilità ad ogni tipo di lavoro: la psicologa si fa baby sitter, il laureato cameriere… e spesso seguono contemporaneamente qualche corso all’università. Si parte dal basso. Quasi riscoprendo dei geni ereditari della cultura italiana: una straordinaria capacità di adattamento, un grande senso di universalità e apertura al mondo. Naturalmente, quando il campanile paesano non prende il sopravvento! E così vanno all’estero – go abroad – letteralmente, vanno al largo, come si esprime una lingua che sa di mare come quella inglese.
È la stessa logica che accompagnava qui i primi migranti italiani di fine ‘700, grandi viaggiatori, artisti o commercianti: il senso del cosmopolitismo. Rispolverato oggi, semmai, con il valore europeistico e quel curioso timbro di estraneità che si respira appena si passa la Manica. Le difficoltà, tuttavia, non mancano. È la solitudine di una metropoli, la dispersione, i ritmi a volte duri di lavoro, la difficoltà abitativa, la droga, la perdita di punti di riferimenti… Ciononostante, il vivere in una società pragmatica e funzionale, dove non c’è tabù comportamentale o vestimentario, dà la percezione di crescere al senso del mondo. Attraverso la lingua, lo stile di vita, la vivace dimensione multiculturale, insieme a stimoli culturali di ogni genere, nasce la precisa sensazione di essere usciti dal nido.
Si vive, allora, quel senso di provare e di provarsi. È il senso di una vita da combattere, uscendo dal contesto abituale, dal clima affettivo ristretto e vissuto in Italia. Si affronta il mondo. I modelli di vita ereditati di consumo e di riuscita si confrontano con la ristrettezza di mezzi economici, con la scuola della concretezza e del vivere in mezzo alla complessità. Come migliaia di migranti italiani venuti nell’ultimo secolo i giovani imparano che l’emigrazione è una lotta e una danza, qualcosa di duro e di bello insieme da vivere.
La fede si fa, allora, ricerca di senso religioso più profondo, spesso avvertito più fortemente che in Italia. Si impone come necessità di essere positivi, nonostante le disillusioni e le tante sconfitte. La fede si fa impegno nel mettercela tutta di fronte alle difficoltà e diventa spesso un motore. La vita, così, è challenge, una sfida da giocare a fondo. È una lezione vera che stanno imparando. Educarsi alla mobilità, a uscire dai ghetti e dalle sicurezze circoscritte, che non permettono di respirare l’interculturalità e la diversità sociale di oggi. Evitare, allora, il rischio di diventare autoreferenziali, per aprirsi a una società di tutte le razze e culture dove la diversità non fa più paura, ma è contesto quotidiano.
Così, alla fine della loro parabola all’estero, Sandro e Anna, due giovani architetti, rientrano in Italia per sposarsi e restarvi. Sono passati quattro anni intensamente vissuti a Londra, lavorando con un architetto coreano, uno indiano, un inglese e un ultimo pakistano: un team internazionale investito in grandi progetti in India. Esperienza formidabile, ti dicono entusiasti mentre brilla loro lo sguardo, ma sarà presa in conto? Difficile immaginarsi il loro futuro in Italia. Capisci, allora, che i giovani si attendono un’altra Italia: aperta, dinamica, tollerante e partecipativa. Sarà quella di domani?
Renato Zilio, (direttore Voce degli Italiani, Londra)