2) Come mai sei andato a vivere e lavorare all’estero?
Intanto c’era da parte mia un desiderio di avventura, di cambiamento, di sfida con me stesso. Dunque una motivazione psicologica, prima ancora che economica o professionale. Sedici anni fa, quando ho deciso di emigrare, avevo un lavoro ben pagato a Mantova e l’ho lasciato. È chiaro che il problema non era solo avere un lavoro, ma avere il lavoro che piace. A un certo punto ho capito che, per il noto problema dell’enorme debito pubblico italiano e delle dinamiche neoliberiste internazionali, la pensione sarebbe stata un miraggio. Quindi era essenziale trovare un lavoro che mi gratificasse sul piano personale, uno di quei lavori che vorresti fare fino all’ultimo respiro. Fare il docente universitario non è il lavoro che ti spinge a guardare l’orologio ogni quarto d’ora, in attesa della campanella. Più che un lavoro è una missione. È quel tipo di lavoro che svolgi a tempo pieno, perché anche quando leggi il giornale, guardi la televisione, osservi la gente nelle strade e nei negozi stai lavorando. Leggi libri e prendi appunti sempre, sul treno e sull’aereo, in vacanza, in spiaggia, il sabato e la domenica. Per cui, quando mi si chiede “quante ore lavori”, la domanda per me non ha senso. Lavoro sempre e mai. L’insegnamento si riduce a poche ore la settimana, ma incontrare giovani studenti e condividere con loro il risultato delle mie ricerche e delle mie riflessioni è un piacere, più che un compito. Naturalmente, questo è vero per me, perché amo la ricerca e l’insegnamento. Conosco persone per cui è un incubo dover leggere, dover scrivere, dover insegnare. Semplicemente hanno sbagliato mestiere. Oggi è più che mai importante trovare il lavoro che piace. Anche perché iniziare a pensare alla pensione quando si hanno 25 o 30 anni è davvero deprimente. La pensione è l’anticamera della vecchiaia. Non può essere questo l’orizzonte dei nostri sogni. L’orizzonte deve essere la vita.
3) Come valuti ad oggi questa tua esperienza?
Sono in Polonia ormai da sedici anni. Se sono ancora qui dopo tanto tempo, significa che i pro sono maggiori dei contro. I salari sono più bassi rispetto all’Italia, ma in compenso il costo della vita è più basso. È in proporzione. C’è anche da dire che fare il sociologo non è come fare il droghiere. Si può aprire un negozio di alimentari in qualunque via, di qualunque città, di qualunque paese. In ogni luogo c’è bisogno di generi alimentari e dunque la scelta del luogo può essere antecedente e prioritaria su quella della professione. Questo non è vero per la mia professione. Il sociologo lavora là dove trova l’occasione di inserirsi, tramite concorso, in un ambiente accademico. Io ho avuto la fortuna di trovare l’occasione in una città molto bella, Cracovia, e in una università che ha un certo prestigio. È una delle più antiche del mondo ed è la prima nel ranking degli atenei polacchi.
4) Com’e’ essere un italiano all’estero, mantieni legami stretti con l’Italia?
Un tempo quando si andava a vivere all’estero si faceva una scelta molto più drastica. Si rompevano davvero i ponti con il proprio paese, con i propri parenti e conoscenti, perché era difficile viaggiare, comunicare, informarsi. Oggi è diverso. Con Internet e la TV digitale ci si informa in tempo reale di tutto quanto accade. Io, quando mi alzo, guardo prima i giornali italiani in rete e poi quelli polacchi. Con i voli low cost, in un’ora sono a Milano con pochi euro. Posso tornare anche solo per il weekend. Con i comunicatori (skype, facebook, gmail, ecc.) faccio videochiamate gratuite con i parenti e gli amici italiani. Si può passare la serata a parlare con gli amici o con colleghi di lavoro, con la sola differenza che non si è nello stesso luogo fisico, ma in un luogo virtuale. Con Second Life ci si può anche trovare nella piazza virtuale di una città italiana. Insomma, possiamo dire che abito in un luogo sospeso tra Cracovia, Mantova e il Ciberspazio. Se lavorassi a Palermo o a Udine, invece che a Cracovia, la situazione non sarebbe molto diversa. Poiché passiamo diverse ore al giorno davanti ad un PC, la nostra attività prescinde ormai in parte considerevole dal luogo fisico di residenza. Per entrare più nello specifico dei legami, pur passando gran parte del mio tempo a Cracovia, diversi anni fa ho fondato in Italia l’Associazione Italiana Transumanisti, con sede a Milano, e ne sono tutt’ora presidente. Ci occupiamo dello studio e della promozione di nuove tecnologie, incluse quelle – come l’ingegneria genetica, l’intelligenza artificiale e la robotica – che possono cambiare direzione all’evoluzione umana. Abbiamo ricevuto notevole attenzione dai media, sono apparso più volte sulla TV italiana, sono stato intervistato da molte testate, ho pubblicato articoli e libri sull’argomento con editori italiani. Le nuove tecnologie permettono ormai quell’ubiquità dell’uomo moltiplicato che sognavano i poeti futuristi all’inizio del Novecento.
5) Cosa potresti dirci della Polonia, dal tuo angolo di visuale?
Ho sempre avuto un interesse per i Paesi esteuropei. Quando è giunta la notizia della fine della guerra fredda, sono andato con gli amici a Berlino a dare il mio contributo alla demolizione del muro. Ho poi viaggiato in diversi paesi dell’Est. La Polonia mi ha colpito molto favorevolmente. Eravamo abituati a vedere i reportage dei tempi della legge marziale, con il coprifuoco, le persone in fila ai negozi, in un ambiente grigio e freddo, e invece all’inizio degli anni novanta ho trovato il paese molto dinamico e colorato. Non c’è nulla di meglio per un sociologo di un paese che attraversa profonde trasformazioni (politiche, economiche, architettoniche, culturali, morali, ecc.) e tra l’altro in breve tempo. È come trovarsi in un grande laboratorio sociale, con la differenza che gli esperimenti sono veri. L’Italia, pur essendo un bellissimo paese, essendo rimasta pressoché ferma negli ultimi vent’anni, è meno interessante da un punto di vista sociologico.
6) Sei in contatto con altri italiani in Polonia?
Sì, è normale che si tenda a fare amicizia con i propri connazionali, magari per parlare di calcio o di politica. Insomma, per fare conversazioni che non si farebbero con gli autoctoni, in quanto meno interessati allo sport italiano o al nostro Paese. Alla fine, anche se abbiamo uno spirito cosmopolita che ci ha spinti a viaggiare ed emigrare, ci sentiamo sempre italiani. Anzi, forse più di prima. Faccio solo un esempio. Quando ci sono le coppe europee, se quando eravamo in Italia, i tifosi della Juventus gufavano contro il Milan o l’Inter, e viceversa, ora tendiamo a tifare per le squadre italiane a prescindere dalla squadra del cuore. Questo perché vediamo che gli stranieri sono più patrioti e meno campanilisti degli italiani. Per un polacco è assurdo vedere un italiano che tifa Liverpool, quando gioca contro il Milan nella finale di Champions. E non ha senso se gli spieghi che tifi per gli inglesi, perché sei interista o juventino. E se il Milan perde, lo straniero ti sfotterà comunque, perché sei italiano come il Milan. Questo meccanismo ti porta a diventare più italiano degli italiani. Questo vale anche per la politica. Ci teniamo a che il nostro paese faccia bella figura e ci indignano i politici e gli imprenditori che danneggiano l’immagine dell’Italia, per interessi di bottega. Ho anche l’impressione che noi italiani all’estero, proprio per la nostra possibilità di fare confronti con ciò che accade in altri paesi, e per il fatto che cerchiamo di tenere saldo il legame con la madrepatria, siamo molto più informati e più in grado di capire la situazione italiana di chi non ha mai messo il naso fuori dall’Italia. In Polonia non siamo pochi. Molte aziende italiane hanno spostato la produzione in Polonia, per il minore costo del lavoro e anche per il fatto che qui i lavoratori hanno minori garanzie sindacali. C’è una tradizione di lungo corso, se si pensa che la FIAT è qui dal 1921. Inoltre, ci sono multinazionali che assumono giovani stranieri per servizi di contabilità o assistenza ai clienti. In altre parole, una azienda italiana invece di assumere direttamente il lavoratore, con un contratto italiano, si avvale del servizio di una multinazionale straniera, con sede in Polonia. Quello stesso lavoratore è assunto con stipendio polacco e vive in Polonia, ma lavora per via telematica per la ditta che magari stava a pochi metri da casa sua in Italia. Questa situazione (detta offshoring) è un prodotto della globalizzazione e delle nuove tecnologie. Il risultato è che in Polonia continuano a sorgere grattacieli, in pochi mesi, ove le luci degli uffici sono accese giorno e notte e pullulano di giovani che lavorano con ditte di tutto il mondo.
7) Abbiamo notato che, oltre a dedicarti alla carriera accademica e al movimento transumanista, riesci a dedicare tempo anche alla musica pop.
Lo spettacolo è da sempre la mia seconda vita. Ho un alter ego musicista che non faccio molto per nascondere, visto che non uso pseudonimi. Scrivo e interpreto brani di musica dance elettronica. È un genere al secolo conosciuto come “italo disco”, perché è stato inventato in Italia all’inizio degli anni ottanta. Si tratta di dance elettronica, cantata in inglese, ma con strutture armoniche e melodiche tipiche della musica leggera italiana. Non è dunque musica particolarmente “impegnata”, ma è comunque qualcosa di cui gli italiani dovrebbero andare fieri, a prescindere dai gusti, se non altro per il grande successo che ha riscosso nel mondo. Gli anglosassoni del resto vanno fieri per il fatto che hanno dato al mondo il rock. Noi italiani, dopo avere lasciato un segno con l’opera e la canzone melodica, ci siamo limitati per lo più ad andare a rimorchio degli altri. Con l’italo disco, abbiamo invertito la tendenza, abbiamo fatto tendenza, assumendo per un certo periodo un ruolo guida nell’ambito della musica dance. E senza alcun aiuto pubblico, come accade invece per altre produzioni culturali come il cinema. È stato un fenomeno spontaneo, dal basso, che ha reso l’Italia popolare nelle discoteche di tutto il mondo. A mio avviso è un patrimonio di cultura popolare di cui si dovrebbero interessare gli Istituti di cultura italiana all’estero. Non vorrei parlare di quello che ho fatto io, dato che si possono tranquillamente trovare notizie e canzoni in rete. Mi limito a dire che ho un brano come “Another day” che va forte in America Latina, specialmente in Messico, e un altro, “Desperado” più popolare in Europa. Ho anche scritto e interpretato una canzone (intitolata “Celebration”) insieme a Tiziana Rivale, la vincitrice di Sanremo nel 1983. In ogni caso, la musica resta per me una seconda attività, dato che continuo a dare priorità alla carriera accademica.
Claudio Scaglioni