La testimonianze di un’epoca, nemmeno troppo lontana, segnata dai ritmi delle stagioni, accompagnata dal lavoro e da esperienze secolari. Umili azioni degli uomini, figli della millenaria cultura contadina nella pianura mantovana ricordata da Franco Turrina .
Gennaio
Gli animali riposano tranquilli, disturbati dal vociare di tanti bambini che, assieme alle mamme e ai nonni trovano riparo dal freddo nel tepore delle stalle. Le donne si portano da casa gomitoli e ferri per lavorare a maglia, i bambini spesso i compiti e qualche volta imparano filastrocche e poesie.
Gli uomini,(se il tempo lo permette), imbacuccati con vecchie sciarpe e guantoni fatti in casa, potano i lunghi filari di alberi che costeggiano i fossi e le strade. Nei giorni più freddi, il castaldo consentiva che venisse acceso un fuoco al quale potersi riscaldare le mani gelate, durante brevi pause. In quei tempi, la legna era un valore e gli alberi venivano curati con metodo ed esperienza. Ogni tre anni la potatura dei platani e dei pioppi, i gelsi ogni quattro. In questo mese si effettuavano anche i trapianti di nuovi alberelli, in sostituzione di vecchie ceppaie. Lungo i fossi venivano messe a dimora pioppi, salici ed ontani. Lungo le strade: platani, olmi e querce, adatti questi ultimi per ricavarne travi ed attrezzi agricoli. Se la neve o il gelo rendevano impossibile ogni lavoro nei campi, allora anche gli uomini si rifugiavano nelle stalle. I più abili riparavano attrezzi o confezionavano scope di saggina. Noi ragazzini seguivamo con interesse il lavoro dei nostri padri: La preparazione dei legacci flessibili e tenaci, ricavati da vimini di salice rosso, messi a macero nel letame all’inizio dell’inverno. Qualche anziano, intrecciava con sapiente esperienza gli stessi vimini per ricavarne cesti o nasse per la pesca.
Il 17 gennaio (S. Antonio), santo protettore del bestiame. Quella giornata tutti gli animali; buoi e cavalli, rimanevano a riposo. I contadini, quel giorno, davano abbondanti porzioni di biada e il fieno migliore. Il prete, passava a benedire le stalle e i pollai.
La Madonna della “seriola” ricorre il 30 gennaio, confusa con le previsioni della merla, si recitava una filastrocca rassicurante. ” alla seriola dall’inverno semo fora, tra niol e seren quaranta di ghe nem“. Ci consolava nel dire che il peggio era passato ma, che comunque ne avremmo avuto ancora per 40 giorni tra fasi alterne.
Febbraio
Le notti fredde e ventose di febbraio, chiamano a raccolta congressi di gatti..
I miagolii profondi, quasi lamenti umani, intercalati da zuffe improvvise, soffiate, dal fienile alla stalla, ci ricordavano che era febbraio e che i gatti andavano felicemente in amore.
Il tre febbraio (san Biagio), la sera si andava in chiesa per ricevere la benedizione della gola: Il rito prevedeva che tutti i fedeli, in fila passassero a baciare due ceri incrociati ed accesi con i quali il sacerdote ti toccava la gola pronunciando alcune parole in latino beneaugurati. Il santo protettore della gola, capitava in una data propizia, infatti in pieno inverno molta gente soffriva del male di gola e raffreddore. L’occasione di dover uscire, al buio, intabarrati, stretti vicini l’uno all’altro per difendersi dal freddo, favoriva felici incontri ravvicinati.
La pulizia dei fossi si effettuava in questa stagione.
Tutti i canali di irrigazione e di servizio venivano prosciugati e puliti dai detriti e dalle erbacce accumulatesi. Sistemate e riparate le chiuse di regolazione, controllati gli argini.
Poiché in quegli anni (secolo scorso), la tecnologia non era ancora in grado di offrire stivali di gomma a buon mercato. Per consentire lunghe permanenze nell’acqua in quella stagione, i nostri nonni avevano ereditato, forse dai loro nonni, strumenti utili a proteggere i piedi nel fango gelato. I cassoni. Erano veri e propri cassonetti di legno, costruiti da artigiani capaci, garantivano la perfetta tenuta (o quasi). La forma era quella di parallelepipedi trapezoidali, indossati come stivali, alti fino al ginocchio e riempiti poi di paglia Consentivano lenti ed impacciati movimenti a chi doveva lavorare nel letto di un fossato dal fondo irregolare e fangoso, ma i piedi rimanevano asciutti. Verso gli anni ’40 comparvero dalle nostre parti i primi stivali in gomma, erano però costosi e freddi ma facilitavano i movimenti e certamente garantivano una maggiore impermeabilità.
Sempre in febbraio, in campagna si dovevano approntare le buche per angurie, meloni e zucche. Erano buche abbastanza profonde, distanziate tre, quattro metri, riempite di letame e ricoperto da un cumulo di terra. In aprile poi, spianato il cumulo si sarebbero affondati i semi.
Marzo.
Sarebbe interessante conoscere l’origine e il significato di una manifestazione rumorosa che si tramandava di generazione in generazione e che aveva luogo il primo giorno di marzo. I ragazzi nei paesi, nelle corti, organizzavano il “cioca marzo“. Provocare rumori assordanti trascinando per le strade vecchi recipienti metallici legati con un filo di ferro: pentole arrugginite, bidoni senza fondo, orinali bucati, coperchi ecc. mentre la squadra batteva con grossi bastoni gli stessi recipienti ad aumentarne il rumore e con alte grida invocava MARZO… Le giornate si sono allungate vistosamente.
L’ultima neve ha resistito negli anfratti e lungo i muri a tramontana, ma ora il vento, non più gelido, ha pulito ogni traccia e qua e la fanno capolino le ortiche novelle e primi fiori di primavera. In campagna i lavori incombono:
Ultimare la potatura degli alberi da frutta e delle vigne, legare i tralci e posizionare nuovi pali di sostegno. Pettinare i prati con l’erpice leggero o con l’impiego di rami di platano, legati a forma di una grossa scopa, trainata da cavalli. La “pettinatura” dei prati aveva lo scopo di rompere gallerie superficiali lasciate degli insetti e dal gelo nel terreno, inoltre, triturare grumi di letame che vi era stato sparso a novembre.
Dopo questa operazione, si raccoglievano eventuali sassi affiorati. Il prato doveva essere pulito onde evitare danni futuri alla falciatrice meccanica o alle falci a mano.
Un pesante rullo di pietra, trainato da animali,veniva fatto rotolare su tutta la superficie del prato. Il rullo serviva a compattare il suolo che il gelo invernale aveva sollevato e reso spugnoso compromettendo la salute e la vita delle piantine. L’operazione di rullatura veniva fatta anche sui terreni coltivati a grano, proprio per compattare il terreno che il gelo aveva sollevato. Prima però si doveva zappare tutto il campo, con una zappetta piccola e leggera. In quegli anni non esistevano diserbanti e le erbe infestanti erano combattute appunto con la zappa. “In marzo, chi non ha scarpe va scalzo“.
Non è una gran rima, ma nelle giornate di tiepido sole veniva adottata dai più.
Via le pesanti “sgalmare“(scarponi chiodati con il fondo di legno) I primi passi insicuri dato che i piedi non erano più abituati alle asperità del terreno, poi tornavano i calli che ci avrebbero protetto nelle scorribande, o nel lavoro fino all’ autunno. In marzo uscivano dal letargo le rane e noi ragazzi a piedi nudi, nel fango dei fossati a caccia con le mani.
Le rane che riuscivamo ad afferrare, venivano infilate in un sacchetto di stoffa che portavamo appeso alla cintola. Un detto popolare precisava che le rane andavano consumate nei mesi il cui nome contiene un’erre: maRzo, apRile, settembRe, ottobRe ecc.
Anche dicembre e febbraio contengono un’erre, ma le rane in quei mesi erano protette in profondi cunicoli nel terreno, in letargo. Per non sbagliare e data la fame, noi mangiavamo rane dalla primavera al tardo autunno, indipendentemente dal mese con o senza la erre..
Le prime viole profumavano l’aria e noi ragazzini dedicavamo pomeriggi interi a cogliere e comporre mazzolini profumati, da portare alla maestra il giorno dopo. Le bambine, molto più diligenti dei maschi in quest’attività, riuscivano sempre a ” bagnarci il naso” e ad ottenere migliori complimenti e considerazioni. Una fastidiosa conseguenza dei primi giorni dell’andare scalzi e con i piedi nel fango erano ” i sciapin“, dolorose screpolature alle caviglie ed ai polpacci, forse provocate dal vento (bagnasciuga). Ovviamente c’era sempre il pericolo di qualche spina nei piedi da tenere in considerazione.
In quella stagione le donne si apprestavano a fare la prima “bugada” dell’anno.
Tutta la biancheria, (quella poca che c’era), indossata durante l’inverno, veniva accumulata in una grande tinozza, coperta con un vecchio (ma proprio vecchio) lenzuolo. Sopra il lenzuolo era steso uno strato di cenere, accumulata e conservata nei mesi precedenti. Sulla cenere poi, si versava acqua bollente fintanto da riempire la tinozza.
Lasciato raffreddare ed a macero per una notte, il giorno dopo si toglieva il tappo della “soiola“, (la vecchia tinozza a doghe di legno), e raccolta la lisciva, (liquido grigiastro sgrassante), per ulteriori piccoli lavaggi. Con la lisciva le nostre mamme c’imponevano un energico lavaggio dei piedi che risultavano veramente puliti e profumati.
La biancheria era portata al fossato, battuta sulla pietra apposita e risciacquata nell’acqua corrente. Questo lavoro era abitualmente eseguito in coppia, assieme alla vicina di casa della corte. Una lunga fune sostenuta da pali, era tesa sull’aia e su questa venivano stese lenzuola e biancheria varia che sventolando al sole portava una nota di colore e primavera alla cascina.
All’imbrunire, frotte di pipistrelli svolazzavano attorno ai vecchi fabbricati. Questo piccolo innocuo mammifero volatile, portava fino a noi, retaggi di inquietanti misteri. Il suo letargo, la forma delle sue ali, la sua vita notturna e silenziosa, aggiunto a fantasiose credenze diffuse in epoche lontane creava un alone di repulsione e di paure ingiustificate..
Aprile
La campagna esigeva impegno e lavori urgenti. Bisognava approntare il terreno per le semine del granoturco e nelle zone irrigue, ove cioè era possibile la coltura del riso, arare, “rondolare” il terreno e predisporre gli argini. Rondolare significa rendere il terreno perfettamente in piano affinché non risultassero dossi ed avallamenti che avrebbero danneggiato il riso, “annegando” le piantine se troppa acqua, essiccando le stesse se l’acqua non avesse coperto il suolo). Quest’operazione si faceva immettendo poca acqua sul terreno arato ed erpicato affinché tutta la superficie risultasse coperta uniformemente con qualche centimetro d’acqua, come una livella per superfici, quindi: spianare i dossi e riempire le buche.
Quasi tutti gli anni la ricorrenza della festa religiosa Pasqua di Resurrezione avviene ed avveniva nel mese di aprile. I tre giorni che precedono la Pasqua le campane erano mute. Nessun suono in segno di lutto (credo): Anche all’interno delle chiese la liturgia prevedeva che il campanello durante la messa fosse sostituito da una serie di rumori gracchianti o battuti con delle tavole di legno, rumori che ferivano lo stato d’animo e non consoni all’ambiente, tuttavia accettati dalla tradizione e dalle autorità religiose.
Il sabato della Resurrezione, tutte le campane, dopo un certo orario, suonavano a distesa. Nel silenzio della campagna, si diffondeva questo scampanio festoso, dal campanile vicino e da altri lontani. I contadini e le donne nei campi interrompevano il lavoro per recarsi al fossato più vicino e bagnarsi gli occhi in segno di festa per la Resurrezione.
La settimana di Pasqua cade nel plenilunio di marzo quindi, nel periodo delle semine importanti: granoturco, meloni, angurie, zucche, pomodori (un tempo queste date erano rispettate, oggi, nuove tecnologie e strutture consentono tempi diversi).
Era tradizione, sentita nel secolo scorso, che durante la settimana che precede la Pasqua, nelle case si facessero le “pulizie di primavera” che, oltre al bucato prevedevano la imbiancatura della cucina (utilizzando calce ovviamente) Si puliva la stufa e i tubi dello scarico del fumo, intasati di fuliggine. Si lustravano le pentole e gli attrezzi di cucina.
Compito di noi ragazzi era la pulizia della catena del camino, la graticola, i tre piedi ed altri attrezzi del focolare. Legavamo il tutti questi attrezzi con un lungo filo di ferro o funicella e trascinavamo nella polvere della strada e della corte per qualche ora.
Lo sfregamento con il terreno e con la ghiaia, in effetti toglieva il nero della fuliggine e delle incrostazioni, ma poi era sempre la mamma che doveva completare l’opera.
Durante Le notti senza luna, nella primavera inoltrata, assistevamo ad un silenzioso vagare di luci lungo gli argini dei fossi limitrofi alle risaie . Erano i cercatori di rane che, muniti di lampade alimentate ad acetilene (carburo), raccoglievano a sacchi di queste bestiole abbagliate dalla luce.
Maggio
In maggio s’iniziava l’allevamento dei bachi da seta, l’operazione era particolarmente impegnativa e prevedeva uno scompiglio nella case, infatti lo spazio necessario per i bachi era tale da imporre spostamenti e rinunce. Per fortuna che il ciclo di sviluppo e produzione dei bozzoli si conclude in breve tempo, (45 giorni) poi si tornava alla vita normale.
Il migliore fieno è il maggengo, fieno ricavato dal primo taglio dei prati, appunto nel mese di maggio. I carri arrivano nella corte gonfi di fieno profumato che occuperà gli ampi spazi nei fienili vuoti. La sistemazione dei fienili era un lavoro che normalmente era eseguito da uomini e donne. Lavoro ambito perché non molto pesante, fatto all’ombra e spesso dava luogo anche a piacevoli intermezzi. Si mormorava che i nati di febbraio e marzo, erano i figli del fienile.
Giugno
Nelle risaie ferve il lavoro di monda e trapianto del riso. Centinaia di donne, curve nell’acqua fino ai polpacci, le gambe protette da vecchie calze, (per ridurre il danno delle punture di insetti ), un ampio capello di paglia, che le giovani ingentilivano con un nastro colorato. Dalle sei del mattino alle tredici, curve sotto il sole a togliere erbacce tra le piantine del riso. Intervallo di un’ora alle otto, per una frugale colazione che ciascuna si portava da casa. A questo scopo un ragazzo o un anziano aveva predisposto la legna necessaria ed acceso un fuoco sullo spiazzo vicino, sotto gli alberi a margine della risaia. Le fette di polenta erano abbrustolite sulle brace, sostenute da stecchi di legno. L’addetto al fuoco aveva anche il compito di procurare una botticella di acqua fresca, portata dalla corte. Accadeva che per errore, dimenticanza o negligenza, la botticella fosse vuota o non sufficiente, allora.. anche l’acqua del canale, spostate le alghe in superficie, era “promossa” …fresca e potabile.
A san Giovanni (24 giugno) si raccoglievano le cipolle e l’aglio
Le falci lucenti con un lungo manico in legno “i fer da sgar” e quelle ricurve per la mietitura, venivano “battute” con una martellina dal manico cortissimo, la sola impugnatura della mano, su un apposita piccola incudine, conficcata nel terreno (le “piante”), dopo la battitura le lame venivano affilate con la pietra ad acqua portata nel corno appeso alla cintura ” el coder“. Aveva inizio la grande ed impegnativa operazione della mietitura del grano. Nelle aziende di una certa dimensione le falci servivano ad effettuare “le strade“, i passaggi per la falciatrice meccanica che depositava lungo il suo percorso i covoni sulle stoppie. I covoni venivano legati impiegando un legaccio fatto con un intreccio di erbe palustri “bals“, questi legacci dovevano essere messi a macerare qualche giorno prima per renderli tenaci e per evitare dolorose ferite alle mani. Infatti questa erba, “la caresa“, è un arbusto dalle foglie lunghe e sottili, spigoli seghettati, maneggiata senza esperienza può provocare fastidiosi e profondi tagli alle dita (se impiegata asciutta).
Nelle piccole aziende a conduzione famigliare, tutto il lavoro di mietitura, veniva fatto a mano da donne e bambini. Dopo qualche giorno i covoni venivano trasportati nella corte, accatastati in un’enorme cumulo.
Ai primi di luglio iniziava la trebbiatura.
Luglio
In campagna, alcuni lavori, per importanza degli stessi o per le caratteristiche che essi rappresentavano, assumevano valore di un rito sacro, pagano: Valore che andava oltre il lavoro in se, coinvolgeva tutti gli abitanti della corte. Tra questi lavori vi era: l’uccisione del maiale, la vendemmia e pigiatura dell’uva e la trebbiatura del grano.
La trebbiatura, (se escludiamo la fatica fisica che comportava), era una attività che affascinava. L’arrivo nella corte di questi macchinari complicati e rumorosi, la sistemazione degli stessi in linea sull’aia: vapore, trebbia, pressa. L’energia era data dal “vapore”, una caldaia mobile dotata di un alta ciminiera metallica, praticamente una piccola locomotiva ferroviaria alimentata con legna e carbone. Un pesante volano, mosso dall’eccentrico dello stantuffo, collegava mediante una lunga cinghia in cuoio il moto alla trebbia e da questa alla pressa.
Il fuochista responsabile, un uomo sempre sporco di fuliggine e grasso, dava il segnale di inizio del lavoro con due lunghi fischi a vapore. Dopo di che, spostando una leva mandava il vapore accumulato allo stantuffo.
Tra sibili e getti di vapore, lentamente il “gigante” si metteva in moto accompagnato dallo sferragliare della trebbiatrice e dal ritmo metallico della pressa. Il fumo e la polvere avvolgevano gli addetti, uomini e donne. Noi ragazzini avevamo il compito di alimentare il serbatoio d’acqua che veniva incessantemente risucchiata dalla pompa della locomotiva.
Ci affascinavano quei congegni in movimento, l’odore del grasso sugli snodi e della pece sulla cinghia. La trebbiatrice, frantumava i covoni che venivano gettati in una tramoggia nella parte alta della macchina. In basso, da due sportelli sui quali era ancorata la bocca di un sacco, usciva il prezioso grano. I sacchi erano subito portati direttamente nel granaio. Una lavagnetta fissata alla parete della trebbia, serviva per segnare con un gessetto ogni sacco riempito.
La pressa era collegata direttamente alla trebbia, un lungo nastro trasportatore raccoglieva la paglia che veniva espulsa dalla trebbiatrice e convogliata in una tramoggia, spinta nel gabbione della pressa dal lungo collo di giraffa ricurvo, “el macaco“, che ripeteva con ossessione i suoi movimenti alternativi. La paglia, pressata dal carrello collegato al “macaco”, veniva legata in balle regolari, poi accatastate con cura oltre l’aia formavano geometriche costruzioni piramidali, campo di giochi proibiti per noi ragazzi.
Spesso succedeva che il padrone portasse pane e salame con qualche fiasco di vino. Durante queste brevi pause impreviste il fuochista controllava ed ingrassava gli snodi e le pulegge. I nostri genitori addetti a quel pesante lavoro tornavano la sera, irriconoscibili, coperti di polvere e di sudore.
Il fosso dietro casa, abbondante d’acqua, era la nostra doccia ed era anche la nostra piscina. Infatti tutti abbiamo imparato a stare a galla e a nuotare in quei fossi, tra le rane e le erbe palustri.
La terza domenica di luglio,” Sant’Anna il riso in canna“. I risai, responsabili delle varie corti si davano appuntamento in una località, abitualmente ad una sagra di un paese vicino, per festeggiare il buon esito del futuro raccolto. Ciascuno ostentava con orgoglio, un mazzolino di giovani spighe colte nella “sua” risaia. Discutevano di riso, di esperienze e si sfidavano sul migliore prossimo raccolto.
Agosto
Era il mese delle scorribande nelle melonaie e nei frutteti. “El taiador” era lo specialista che conosceva, dal rumore dell’anguria battuta con il manico della roncola, se matura o acerba. Noi ragazzi davamo un aiuto nel trasportare carriolate di angurie dal campo alla baracca. In campagna era considerato un mese tranquillo, la trebbiatura era finita, la risaia era in pieno sviluppo ma non richiedeva lavori particolari, il grano turco richiedeva solo acqua. Quindi si guardava il cielo sperando nella pioggia o chi , fortunato, disponeva di acqua dai fossi, irrigava giorno e notte le arse piantagioni.
Settembre
La corte si animava, lunghe file di carri portavano sotto i portici cataste di granoturco, gambi e pannocchie ancora coperte dalle foglie. Era organizzato allora un lavoro a cottimo che vedeva impegnate donne e bambini. Scartocciare le pannocchie in pratica liberare la pannocchia dall’involucro di foglie che la proteggevano. Una incaricata segnava le ceste di pannocchie pulite accreditandole alla rispettiva operatrice. Il numero delle ceste realizzato avrebbe dato diritto ad altrettante ceste di tutoli ricavati dopo la sgranatura delle pannocchie che avveniva a macchina, la sgranatrice.
I tutoli delle pannocchie erano il compenso per quel lavoro e servivano ad alimentare la stufa con la loro debole fiamma durante i mesi invernali. Il lavoro qualche volta ed in qualche corte, proseguiva anche di sera, alla luce di lampade a petrolio. Le foglie secche che avvolgevano le pannocchie, (i scartoss), selezionati i migliori e raccolti per farne materassi per il letto.
Dopo l’8 settembre 1943, le corti disponevano di parecchia manodopera gratuita, per questi lavori. Erano le centinaia di giovani militari sbandati che tentavano con ogni mezzo di raggiungere le loro famiglie lontane. Lasciate le divise ed abbandonate le armi e le caserme, vestiti con vecchi abiti di fortuna offerti loro dalle donne della corte, si prestavano a quei lavori per meglio mimetizzarsi agli occhi vigili dei tedeschi e del nascente esercito di “Salò”.
Ottobre
Si preparavano le botti e gli attrezzi per la vendemmia. Le botti, lavate internamente con del vino vecchio. Se presentavano muffe o incrostazioni, si dovevano aprire togliendo uno dei due tappi, raschiare internamente ogni residuo, lavare e sterilizzare con fumigazioni di zolfo. Queste si effettuavano bruciando della polvere di zolfo all’interno di ogni botte o recipiente. Dopo la vendemmia e la pigiatura, si diffondeva in ogni corte il classico odore di vino in fermentazione.
In ottobre si tornava a scuola, riprendevamo le nostre cartelle di fibra o di legno a tracolla, i nostri astucci con pennini spuntati, i vecchi libri sgualciti e carichi di macchie d’inchiostro.
Il riso. La raccolta del riso occupava donne ed uomini della corte e dei paesi vicini.
La trebbiatura si effettuava fino a tarda notte alla luce di fari o lampade a petrolio e se la stagione era piovosa, anche l’essicatoio funzionava giorno e notte.
Quando tutto il riso era finalmente nel granaio, era usanza festeggiare il raccolto con un grande pranzo,”la gasaiga” che veniva allestito sotto i partici della corte, con lunghe tavolate e balle di paglia a sedere. Alla gasaiga partecipavano tutti gli addetti alla risaia e spesso anche le loro famiglie. Il menu era a base di riso, salamelle, pesce e tanto vino.
Con questa “festa” finivano i lavori impegnativi che avevano richiesto un alto numero di braccianti. L’aratura e le semine d’autunno concludevano l’annata dei lavori in campagna.
Novembre
San Martino, i traslochi. L’undici novembre era consuetudine che si effettuassero i traslochi. Famiglie che si spostavano da un paese all’altro, da una corte all’altra, da un padrone all’altro. In paese arrivava gente nuova, mai vista, magari con dialetti diversi da paesi lontani, (o che a noi sembravano lontani). Dopo le iniziali reciproche diffidenze, si creavano nuove amicizie, nuovi sopranomi, nuovi amori. Nella nostra zona, in quegli anni, arrivavano tante famiglie provenienti dal veneto e dal bresciano. Probabilmente dalle loro parti c’era più miseria che non da noi. (Il problema si ripete anche ai nostri giorni, le cause sono sempre quelle anche se riflettono condizioni e dimensioni oggi planetarie).
Per Santa Caterina o neve o brina, quindi stagione propizia per ammazzare il maiale.
Anche questo era un lavoro che andava oltre le operazioni in se. Era un rito che coinvolgeva il vicinato, la corte. Tante famiglie, con una parte del maiale macellato, saldavano i debiti con il bottegaio. Erano chiusi i conti su quel quadernetto blu, unto e bisunto sul quale durante l’anno erano state segnate le spese e gli acconti con un mozzicone di matita copiativa. Ritirato il vecchio libretto ed aperto uno nuovo che avrebbe segnato le tappe del vivere di una famiglia, le sue miserie, i suoi consumi.
Dicembre
Santa Lucia 13 dicembre provocava sempre una eccitazione nella corte, sogni e fantasie e tante aspettative: ci aspettavano che la Santa Lucia, con il suo somarello, portasse a ciascuno nella notte del 13 dicembre, doni e giocattoli. Si doveva preparare una tazza di crusca per il somarello, da lasciare sul davanzale della finestra, affinché la santa al suo passaggio potesse servirsene con facilità. Al mattino, tutti a correre per vedere cosa ci avesse lasciato sulla finestra la santa misteriosa. I nostri doni erano modesti: due aranci, tre noci, un torroncino avvolto con carta colorata, una bambolina di pezza per le bambine o un cavallino di cartapesta, un palloncino colorato per i maschietti. Annusavamo increduli ed estasiati gli odori ed i profumi che accompagnavano questi nostri doni dalle origini misteriose. Poi, nei giochi della giornata facevamo i confronti e già constatavamo le differenze, ma non si andava oltre.
Arrivava presto il Natale e portava nelle stalle leggende ed antiche filastrocche.
Lo sfoggio di qualche nuovo indumento, per la ricorrenza, il suono festoso delle campane, i profumo di cibi più ricchi, inusuali, diffondevano negli animi un senso religioso di gioiosa speranza. Era passato un altro anno, nelle stalle si commentavano i raccolti, le nascite, gli amori e si ricordavano quelli che ci avevano lasciato.
Franco Turrina