«Non suonate a Mantova la Marcia di Radetzky di Johann Strauss il vecchio. L’appello alla memoria viene lanciato da un gruppo di intellettuali che ha chiesto di non eseguire nel concerto di Capodanno al teatro Sociale la celebre marcia dedicata al feldmaresciallo austriaco che ordinò l’incendio e la distruzione di Sermide e che promosse, dopo efferate torture, il processo e le esecuzioni dei Martiri di Belfiore.
In origine fu Rodolfo Signorini. Ieri è toccato a Maurizio Bertolotti, presidente dell’Istituto di storia contemporanea. Anche lui dice no all’esecuzione della Marcia di Radetzky di Johann Strauss padre, a Mantova e in provincia. Nel 1848 l’inno militare salutò l’ingresso a Vienna del feldmaresciallo vittorioso sui piemontesi, dunque dopo le battaglie di Montanara, Curtatone e Custoza. Feldmaresciallo che, passato qualche giorno, ordinò l’incendio di Sermide e tre anni più tardi promosse il processo contro i congiurati di Belfiore.
Ma un foltissimo pubblico ieri ha seguito il Concerto di Capodanno al Teatro Sociale, ha applaudito, dato il ritmo e ottenuto il bis del pezzo finale, la Radetzky March, alla maniera del Capodanno tv della Musikverein viennese (prima dell’italianizzazione degli auguri dalla Fenice di Venezia). Autolesionismo? Smemoratezza del Risorgimento? Oppure solo musica? Bertolotti dice di aver cercato un contatto con la direzione del Sociale per invitare l’orchestra a non eseguire la Marcia e annuncia l’arrivo di una lettera. Lo abbiamo intervistato.
Non le pare un po’ italico-passatista questa polemica che ritorna?
«Ritorna perché evidentemente da parte di molti cittadini si continua a percepire l’inopportunità dell’esecuzione di questo pezzo a Mantova. Ciò che colpisce è che non vi sia la memoria dei fatti che sono legati per Mantova al nome di Radetzky: l’ispiratore e il sovrintendente al processo contro i congiurati di Belfiore del 1852-1853».
Ma è musica. Che si dovrebbe dire della fascista »Rosamunda«, del pontifizio »Noi vogliam Dio «, del leghistizzato »Nabucco?
«La scrittura di questo pezzo è stata un atto politico, perché la Marcia di Radetzky fu composta da Johann Strauss padre in onore del feldmaresciallo dopo la vittoria del 1848. Questo non significa che la Marcia non debba mai più essere suonata o cancellata dalla memoria, ma che è inopportuno suonarla in un’occasione di forte valore simbolico».
Che vuole, l’interdizione della Marcia di Radetzky dal Mantovano?
«Ripeto: quella musica conserva un alto valore simbolico. Oggi è uno degli inni di formazioni militari, come dell’esercito cileno. Quando la si ascolta bisogna avere presente in quale contesto è stata concepita e con che finalità».
Lei rappresenta un’istituzione?
«Parlo a titolo personale. Tuttavia sottolineo il fatto che l’Istituto di storia contemporanea che presiedo e altre istituzioni negli ultimi anni si sono sforzate per valorizzare il Risorgimento come punto d’inizio della storia dell’Italia democratica, e il contributo straordinario che Mantova ha dato a questo processo. Colpisce questo smarrimento della memoria che porta ad applaudire la Marcia di Radetzky».
intervista di Stefano Scansani dalla Gazzetta di Mantova (02 gennaio 2009)
«Fu un atto politico contro la libertà»
Pubblichiamo integralmente la lettera-appello firmata da alcuni intellettuali mantovani. Il contenuto era stato anticipato nell’edizione di ieri della Gazzetta dal presidente dell’Istituto di storia contemporanea Maurizio Berttolotti Come annunciato, il concerto di Capodanno al Teatro Sociale si è concluso con l’esecuzione della Marcia di Radetzky di Johann Strauss il vecchio. Ci dicono che così avviene ormai da alcuni anni, ciò che ai nostri occhi non mitiga, bensì acuisce la gravità del fatto. Il maresciallo Johann Joseph Franz Karl Radetzky (1766-1858) fu colui che,
nella sua qualità di governatore generale militare e civile del Lombardo-Veneto, ispirò e guidò nel 1852-53 il processo ai congiurati di Belfiore e decise alla fine quali dei condannati dovessero salire il patibolo. Nell’occasione si comportò con particolare durezza, respingendo ogni richiesta di clemenza. Radetzky fu il vero carnefice dei martiri di Belfiore. Ma la vicenda è da considerare in una più ampia prospettiva. Sin dal 1831 Radetzky fu di fatto il responsabile del controllo militare del Lombardo-Veneto e dunque anche il principale responsabile dell’oppressione politica esercitata da Vienna sui territori italiani. Nel 1848 le provocazioni che egli orchestrò furono tra le cause dell’inasprirsi a Milano dei rapporti tra cittadini e autorità. Dopo la vittoria di Custoza condusse con spietatezza la repressione: a farne le amare spese fu anche la cittadina mantovana di Sermide, ridotta in cenere il 29 luglio perché i suoi abitanti avevano osato resistere al ritorno degli occupanti. Negli anni successivi impose uno stato d’assedio che significò anche per i mantovani un vero e proprio stato di servaggio. Non sorprende che egli assurgesse agli occhi dei lombardi, dei veneti e degli italiani a simbolo dell’oppressione, mentre gli austriaci lo acclamavano salvatore dell’impero e della corona. Proprio per acclamare Radetzky Strauss il vecchio compose la famosa marcia: con essa egli salutava la riconquista di Milano e la vittoria del Maresciallo sulla rivoluzione. Venne eseguita la prima volta il 31 agosto 1848, mentre ancora fumavano le rovine di Sermide. I mantovani che l’accolgono ogni anno battendo le mani devono sapere che ripetono così il gesto degli ufficiali asburgici che quel giorno la ascoltarono in tripudio al Wasserglacis di Vienna rendendo onore al vincitore di Custoza.
In quest’epoca di dimenticanze sembra peraltro comprensibile che il pubblico mantovano non sappia che cosa applaude; meno ammissibile è che i direttori del teatro, i direttori artistici e i direttori d’orchestra non sappiano che cosa propongono al pubblico mantovano. Ma la musica, obietterà qualcuno, è un messaggio che trascende e trasfigura le contingenze della politica. In questo caso si direbbe proprio di no. La Marcia di Radetzky fu concepita e composta come un atto politico: lo conferma il fatto che con essa Strauss padre volle apertamente contrapporsi al figlio che aveva aderito alla rivoluzione e, ispirato dagli eventi, aveva composto in quei frangenti i suoi Freiheitslieder (Canzoni di libertà). Certo anche l’oblio è necessario alla vita. Ma occorre pur sapere che ciò che vogliamo essere dipende anche da ciò che decidiamo di ricordare e di dimenticare. Il Risorgimento italiano non fu soltanto il processo di unificazione politica dell’Italia (sul cui valore è naturalmente lecito dissentire), ma anche il luogo d’origine per gli italiani delle idee di libertà e di democrazia che troveranno più tardi la loro espressione più compiuta nella Costituzione della Repubblica. Mandarne al macero la memoria non sarebbe una scelta saggia. Concludiamo con un auspicio: che in tutte le città del continente (e, perché no? del mondo), si affermi la consuetudine di concerti di Capodanno che valorizzino musiche e canti che nella storia dei popoli e delle culture hanno promosso, nel rispetto delle differenze, lo sviluppo del dialogo e della comprensione.
Nicoletta Azzi, Maria Bacchi, Giancorrado Barozzi, Maurizio Bertolotti, Eugenio Camerlenghi, Paolo Corbellani, Daniela Ferrari, Luigi Sguaitzer, Rodolfo Signorini, Anna Maria Petrobelli, Maria Vittoria Grassi, Gianfranco Ferlisi, Speranza Galassi
Aderiscono all’appello : Alessandro Righetti, Giovanni Marinelli, Emma Antonini Associazione Mazziniana di Mantova
Io, cliente del Radetzky Café»
Radetzky sì, Radetzky no? Continua il dibattito innescato dalla lettera di tredici storici e intellettuali mantovani all’indomani del concerto di Capodanno al Teatro Sociale. Chiuso con la marcia dedicata da Strauss (padre) al feldmaresciallo. Di seguito proponiamo il contributo di Renzo Dall’Ara. Intanto il confronto continua anche sul web. Ma come ha marciato di traverso quella Radetzky Marsch di fine d’anno al Sociale! Decisamente risorgimental-storical-scorrect e quindi, inevitabilmente, i risorgimental-storical-correct si sono fatti subito leggere sulla Gazzetta. Adesso succede che mi vengono, non dico rimorsi, ma almeno ritorni di coscienza. Devo confessarlo: a Milano, mi è capitato d’essere andato a bere qualcosa al numero 105 di corso Garibaldi – angolo Largo la Foppa. Ebbene, a dispetto del toponimo in camicia rossa, l’insegna recita: Radetzkty Cafè, modaiolo punto d’incontro per il rito meneghino dell’happy hour. Ma guardali questi milanesi, nella città delle famose Cinque Giornate: in via Cusani c’è Palazzo Cagnola e nel giardino credo sopravviva ancora il “Glicine di Radetzky”, proprio il fiore che, si racconta, il rude soldataccio boemo curasse personalmente. Dalla vulgata ambrosiana spunta un particolare: quando rientrò a Milano, dopo le Cinque Giornate del 1848, sarebbe stato accolto così dal popolo: “Semm minga stàa nüm a casciàl via, inn stàa i sciüri!’‘. Da non crederci. Rimane sempre viva, poi, la questione della cotoletta di Radetzky, o meglio della relativa ricetta che l’entusiasta feldmaresciallo mandò al conte Attems, alto dignitario della corte viennese, alimentando così il postumo confronto-scontro anagrafico e prioritario tra la Milanese (con la “s” e con l’osso) e la Wienerschnitzel. I ristoranti mantovani normalmente non l’hanno in menu, ancor meno quindi la metteranno adesso, a scanso di incidenti. Meno male, poi, che lo spartito è andato distrutto in un incendio: forse proprio sull’onda della Radetzky Marsch e della cotoletta Radetzky, uno degli Strauss, forse Johann, compose la Kotelet-polka. Vi figurate i mali di stomaco se l’eseguissero adesso… Al di là del divertente, una vecchia enciclopedia tedesca di personaggi storici (“Geschichte in Gestalten”, 1963-1969) include nella biografia di Joseph
Johann Franz Karl conte di Radetz il particolare che “venne più volte ferito nella difesa di Mantova nel 1797”. Cannonate e fucilate erano francesi ma da Mantova non si era portato via soltanto cattivi ricordi: probabilmente, invece, la ricetta degli gnocchi di zucca, altra sua passione dichiarata. Non per questo verrà l’idea di affiancare alla sacralità dei tortelli, eventuali Radetzky-Knödel… Certo che, per non correre rischi, i prossimi, eventuali concerti potrebbero stare più sul sicuro programmando, che so, “Canzone italiana”, testo di Luigi Mercantini, musica di Alessio Olivieri, eseguita per la prima volta il 3 dicembre 1858 e replicata poi infinite volte da qualsiasi banda in qualsiasi città o paese. Ma che roba sarebbe? I settantenni e oltre l’hanno ascoltata o cantata come “Inno di Garibaldi” e vorrei proprio vedere se qualcuno ci trovasse da ridire. Incominciava così: “Si scopron le tombe, si levano i mort / i martiri nostri son tutti risorti!/ Le spade nel pugno, gli allori alle chiome/ la fiamma ed il nome d’Italia nel cuor!”. Quanto di più garibaldin-correct, dal momento che lo stesso Eroe dei Due Mondi l’aveva commissionata al Mercantini poeta, mentre a rivestirla di musica era stato il cremonese Alessio Olivieri, capo musica della 2º Brigata Savoia. Marcetta ingiustamente archiviata ma, attenzione,
essa stessa non priva di insidie nel refrain: “Va fuori d’Italia/ va fuori ch’è l’ora/ Va fuori d’Italia/ va fuori o stranier!”. Magari va a finire che qualche testa calda la toglie dal contesto storico, trasferendola ai permessi di soggiorno…
Renzo Dall’Ara
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