Domenica 5 settembre, ore 21.00, Daniele Marconcini, Presidente dei Mantovani nel Mondo ha presentato il libro “
Di sole voci“, opera prima di Silvia Rosa, raccolta poetica e libro fotografico dove le parole e le immagini parlano.
Silvia Rosa nasce a Torino nel 1976. Laureata in Scienze dell’Educazione, scrive poesie e racconti, che ha pubblicato su riviste e blog e che compaiono anche su alcune antologie collettive di Concorsi Letterari a cui ha preso parte, risultando più di una volta tra i vincitori. La sua prima raccolta poetica “Di sole voci” è edita da Lietocolle (2010).
Silvia, giovane poetessa, laureata in Scienze dell’Educazione all’Università di Torino, è anche l’autrice dello studio “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura” pubblicato a puntate dalll’Associazione, sul Portale giornalistico dei Lombardi nel Mondo con cui Silvia Rosa collabora. Con la pubblicazione di questo lavoro, si è voluto analizzare il fenomeno dell’emigrazione delle italiane in Argentina, sia attraverso la prospettiva storiografica, sia mediante le immagini e le rappresentazioni che la letteratura non scientifica fornisce in merito. La tesi di Silvia mette in evidenza gli aspetti fondamentali del ruolo della donna nel percorso della migrazione e nella società di destinazione. La donna è l’anello di congiunzione tra la società di arrivo e quella di destinazione. Il ruolo della donna è cruciale, da loro partono le dinamiche che fanno migliorare le relazioni tra le comunità, ma non solo le donne immigrate custodiscono la memoria storica del loro paese di origine.
Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura, di Silvia Giovanna Rosa
Presentazione “Mi chiamo Silvia Giovanna Rosa e vivo a San Mauro, una piccola cittadina immersa nel verde, ai piedi della collina torinese. Ho conseguito presso l’Università degli Studi di Torino la laurea triennale in “Scienze dell’Educazione” e attualmente sto terminando la specializzazione in “Educazione e Formazione Continua in età adulta”. La tesi su “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura”, discussa a conclusione del primo ciclo di studi universitari, nell’anno accademico 2004/05, nasce da un interesse che ha radici intime e profonde, scavate lontano nel tempo e alimentate a lungo da un intenso desiderio. O, meglio, da una necessità: scoprire e comprendere il difficile cammino dell’emigrazione, che ha condotto una parte della mia famiglia, insieme a milioni di persone, al di là dell’oceano, verso quella terra fantasmagorica, sconfinata, piena di città con strade lunghissime di lucine e insegne colorate, gremite di passanti, come io sognavo dovesse essere l’Argentina, ammirando con occhi di bambina le cartoline postali che mia nonna riceveva ogni tanto da Buenos Aires. A inviarle era sua sorella, la mia prozia, che nel 1949 lasciò l’Italia, al seguito di suo marito e con un bimbo di circa due anni, in cerca di lavoro e di una vita migliore.
In casa mia, però, non ho mai sentito parlare di “emigrazione”, né di navi che solcano l’Atlantico, fischiando il suono desolato degli addii: i nostri familiari stavano in America, o semplicemente “laggiù”. In una specie di non-luogo, un angolo ritagliato nell’immaginario, sulla soglia della memoria, da cui ogni tanto giungevano notizie e fotografie di nascite e matrimoni. Curiosità, credo. Forse la voglia di camminare in quella strada da cartolina col nome esotico, Calle Florida, che pareva alludere a giardini in fiore. Non saprei dire perché, ma un bel giorno, giovanissima, ci sono finita anch’io in America. E ho conosciuto la mia prozia. I miei cugini di “laggiù”. Certi viaggi, si sa, possono cambiare il corso di una vita. Oppure no, però bastano a creare legami indissolubili con il luogo e con la gente che si è avuto il piacere d’incontrare. A me, per la verità, sono capitate entrambe le cose. Ma questa è un’altra storia.
La mia tesi, scritta molti anni dopo quel viaggio, è un tentativo di analizzare alcuni possibili significati che l’esperienza migratoria ha acquisito per chi ne è stato protagonista, in particolare per le donne. Ho scelto questo argomento perché il racconto di alcuni frammenti della vita da emigrata della mia prozia, narrati da lei quando la conobbi, hanno continuato a risuonare come un’eco in me; m’è sembrato che, in qualche modo, sebbene ne fossi stata solo una testimone indiretta, mi riguardassero: a cominciare da quei giorni interminabili in balia dell’oceano, segnati dal lutto, quando la mia prozia scoprì di aspettare un bimbo, che non diede mai alla luce. Perso, in quella traversata, come gli affetti più cari da cui si separò partendo. E poi la nascita di un’altra figlia, le difficoltà economiche, i sacrifici affinché il figlio maggiore studiasse e diventasse medico, la solitudine delle ore trascorse affaccendata in casa, quella casa che il mio prozio muratore pare abbia costruito di notte, dopo il lavoro, alla luce artificiale dei lampioni, divorando panetti di burro che gli fornivano energia (!) a poco prezzo. Tutto questo (e molto altro ancora…), nelle lettere che giungevano in Italia, non era assolutamente menzionato. Quasi fosse stato inghiottito dalle formule edulcorate di cui corrispondenza epistolare con “quelli rimasti al paese” era infarcita: “Cara sorella, con questa mia ti faccio sapere che qui sto bene…che stiamo tutti bene e spero così anche voi…”. Oggi la mia prozia ha novantasette anni. Lo sguardo presente, lucido, azzurro di sempre. L’ho rivista due anni fa e ancora si adoperava energica a preparare la comida!
Questa tesi è dedicata a lei e alle donne senza volto né nome, che nella quotidianità delle loro ‘normali’ esistenze hanno portato a compimento, in modi e con esiti diversi, la straordinaria, eccezionale avventura del ripensare se stesse in un mondo nuovo. L’auspicio è che le loro storie di vita non siano dimenticate, rimosse, cancellate dalla memoria collettiva e che il ritratto forse più autentico e più sofferto degli italiani, “popolo di emigranti”, non venga occultato, insieme ad una parte importante del nostro passato, impigliato intorno al mondo nel fitto intreccio di sentieri migratori, come fili d’ortica pungenti nella complessa e contraddittoria trama della Storia d’Italia. Vorrei ringraziare l’Associazione Mantovani nel Mondo che attraverso il Portale Lombardi nel Mondo, mi ha concesso la preziosa opportunità di pubblicare ciò che ho scritto e che contribuisce con impegno a divulgare le piccole, grandi storie dell’Emigrazione. Perché di quei fili sottili, che tengono insieme gli italiani (e i loro discendenti) di ogni angolo del globo, non si perda traccia e non si smarrisca il senso.
Introduzione
Con questo lavoro ci si propone di analizzare il fenomeno dell’emigrazione delle italiane in Argentina, sia attraverso la prospettiva storiografica, sia mediante le immagini e le rappresentazioni che la letteratura non scientifica fornisce in merito. Presentando gli studi storiografici riguardanti i casi delle agnonesi a Buenos Aires, delle italiane a Santa Fe e delle immigrate nella Patagonia del sud, si tenta una ricostruzione delle diversificate realtà e dei molteplici stili di vita che nel nuovo contesto le donne emigranti si sono trovate ad affrontare, nell’ottica di valutare come e in che misura le identità, i ruoli, gli spazi d’azione siano stati influenzati e stimolati in direzione di un rinnovamento da un’esperienza così radicale come quella migratoria. Prendendo in considerazione i contributi che studiano la partecipazione femminile ai movimenti sociali e politici – socialismo, femminismo e anarchia – si dà risalto ad un aspetto forse poco noto dell’immigrazione in Argentina: il ruolo attivo che le donne italiane giocarono all’interno della nascente società, impegnandosi da protagoniste sul fronte delle lotte per i diritti al voto e alla parità salariale, per il miglioramento delle condizioni di lavoro, nonché in scioperi, manifestazioni culturali o veri e propri episodi di protesta, che mobilitarono centinaia di partecipanti destando notevole scalpore, come quelli ricordati col nome di ‘el grito de Alcorta’ o ‘la huelga de las escobas’.
Con l’analisi della letteratura italiana e di quella argentina, invece, si getta luce sulle componenti dell’esperienza migratoria femminile relative ai sentimenti soggettivi e alla sfera delle emozioni delle immigrate; al contempo si guarda ad importanti questioni prese in considerazione dalla storia, come il viaggio transoceanico, i conflitti generazionali all’interno delle famiglie, o il problema dell’integrazione, provando a coglierne tutte le sfumature, in particolare gli aspetti più dolorosi e drammatici, a cui la narrazione ha concesso quello spazio e quella sensibilità di indagine che difficilmente la mera ricerca storiografica poteva accordare loro”.
Da “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura ” di Silvia Giovanna Rosa
Di seguito una poesia tratta dal libro “Di sole voce” di Silvia Rosa
Alessandra Pigliaru nella prefazione di questo itinerario poetico “Di sole voci” racconta l’autrice come testimone del suo essere donna, creatura, scrittrice. … i versi di Silvia Rosa dice Alessandra Pigliaru sono una cronaca del giorno a venire, della conta dei passi che servono per uscire dal fondo di sé per farsi Sola Voce. Il verso chiama una profonda cura del dettaglio e dello stile così come una parola piena, contundente e circolare che si fa carne nuda […] Ecco che la nudità diventa la possibilità di decifrare con la pelle la scrittura e il segno del mondo: resta come un coagulo che si distingue dall’anima e accede al Senso. Tutti i dispositivi poetici di Silvia Rosa ci dicono il modo di accogliere il Senso per poi accettarne il distacco.
SONO MORTA UNA MATTINA D’OTTOBRE
Sono morta una mattina d’ottobre,
ma non d’autunno
tra foglie rosse pioggia cielo plumbeo,
piuttosto luce rasoterra ovunque il sole
(un’assoluta sospensione di gravità spazio-temporale)
filtrata ogni mia cellula nella parola (in) divenire
me ne sono andata,
era d’ottobre, ma non d’autunno e non per sempre
perché per sempre è solo il ritornare
indietro immobile aspettare
è l’assenza di te, il vuoto del tuo nome
che mette rami secchi ad ogni lettera
che muore…