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strangers into citizens di Renato Zilio

Mai avrei immaginato di passare un giorno sotto il Big Ben, davanti al Parlamento inglese, come un manifestante in corteo, con un cartello in pugno. Abituati come si è a guardarlo con l’occhio del turista o quello distratto di un abitante di Londra. Ed è successo qualche giorno fa, il 4 maggio: è stato straordinario. Eravamo in migliaia. Migliaia erano i cartelli arancione con scritto Strangers into citizens. Da clandestini a cittadini. Un fiume lunghissimo, un’arteria viva che percorreva il centro città mentre policeman dappertutto cercavano cortesemente di arginare questa colata lavica arancione, che dalla cattedrale scendeva al Parlamento. Immagine efficace per dire quanto il lavoro di questi stranieri è un’arteria invisibile, che irrora le vene di tutta una società. Ed era per chiedere di regolarizzare 500 mila lavoratori migranti da tempo in Gran Bretagna non ancora regolari. Dalla cattedrale di Westminster si era partiti dopo la solenne “messa per i lavoratori migranti” in onore di s.Giuseppe lavoratore. Provvidenziale patrono di un lavoro silenzioso, discreto, invisibile di migliaia di stranieri. Magica ne era stata l’accoglienza. Sulle gradinate dell’austera cattedrale, al mattino, un coro di bambini di tutte le razze dell’età apparente di sei anni cantava assorto, accompagnato da una musica registrata. Immagine bella e tenera del popolo di domani. Un maestoso cero pasquale splendeva più che mai al centro dell’assemblea eucaristica: segno da sempre della presenza viva del Signore in mezzo ai discepoli. Ma questa volta era anche segno forte di comunione di un’umanità dispersa – la diaspora dei migranti – riunita in nome Suo.

Le nazionalità non si contavano. Incantava in prima fila il gruppo degli indiani sotto eleganti ombrelli di seta lavorati in argento dai pendagli d’oro, dietro di loro nazionalità di ogni angolo della terra… e ultimi i portoghesi in costume tradizionale rosso-nero, che comparivano proprio all’offertorio, cantando da soli alla grande e portando un delizioso porto con pane alle olive in abbondanza! Il successo più grande, tuttavia, fu riservato non ai tre vescovi che celebravano (erano tre diocesi riunite), ma al piccolo parroco inglese della cattedrale, quando alla fine invitava tutto il popolo di Dio a scendere in piazza. “La giustizia è sempre stata la passione della Chiesa!” ricordava  tra gli applausi. La messa non era finita! E fu sufficiente per vedere comparire bandiere di ogni nazione e cartelli arancione ad ogni lato. Era l’ora di mettersi in moto con tantissimi altri che aspettavano già fuori, terminato il loro culto anglicano o altri culti religiosi. Un’orchestrina jazz subito fuori la cattedrale lanciò i primi passi di danza…

Per strada il giovane padre Jake piroettava in aria davanti alla sua comunità filippina ripetendo a salve “Mabuhay! viva le Filippine!” Un inglese in camice, stola e megafono a tracolla dava ordini alternando canti mariani. Il popolo etiopico eseguiva le sue antiche canzoni. Africani dagli splendidi costumi avanzavano a suon di tam-tam, mentre vecchie sisters con i cartelli arancione e il nome della congregazione seguivano ben a ritmo. Gruppi giovanili delle scuole cattoliche avanzavano con l’abituale serietà e naturalmente i vescovi seguivano a passo… “Ma anche in America i vescovi vanno in piazza per la giustizia e gli emigranti!” mi commentava secco qualcuno al mio interrogativo. E finalmente eccoci a Trafalgar square, dove tra parole, canti e ritmi scorrevano due ore indimenticabili… come indimenticabile fu per un popolo dai mille colori cantare all’unisono l’inno nazionale stampato sui maxi-schermi God save the Queen!  Mi immaginavo, segretamente, quando tutti gli stranieri da noi un giorno si metteranno anch’essi a cantare “Fratelli d’Italia”… Strangers into citizens, da stranieri a cittadini! In fondo, tutti avevano preso sul serio l’invio finale della messa. Se non loro, infatti, chi mai ricorderebbe alla società di oggi la sete di dignità del popolo dei migranti?!

Meditazione sul corpo

Situato in un luogo sorprendente un modernissimo padiglione sulle rive del Tamigi si innalza come un’immensa tenda bianca. Sotto, una mostra originale a Londra. È il racconto straordinario, emozionante della nostra tenda e della sua provvisorietà: il corpo dell’uomo. Body Worlds, the mirror of time, il titolo. Guardo la gente uscire dall’esposizione: la accompagna un’aria assorta, uno sguardo come sospeso. Un sapore amaro ti resta in bocca, è vero, che si stempera subito… ti senti vivo, almeno. Respiri e non ti sembra vero: questo semplice gesto ti pare ora una meraviglia!  Compassione, stupore e curiosità ti  seguono lungo tutto il percorso, anzi si incollano al tuo sguardo. Molti lo vivono come un’insolito pellegrinaggio all’interno di quello che già dai vostri primi passi è definito lo specchio del tempo: il corpo. Una serie di volti in gigantografia, infatti, mostra l’avanzare degli anni, le pieghe del tempo, i solchi e le macchie dell’età: la nostra pelle rivela il tempo vissuto. “Dal concepimento alla nascita, dall’infanzia alla gioventù, dall’età adulta alla vecchiaia il cambiamento è l’unica costante” avverte delicatamente una scritta.  Vietatissimo prendere foto. Anonimi più che mai i donatori… non di un solo organo, ma di tutto il loro corpo. E così, ci si aggira per le sale come attorno ad un immenso tavolo anatomico. Non riservato solo a qualche studente di medicina, ma a ben 26 milioni di visitatori, finora…

“Chi legge sa molto, ma chi osserva sa molto di più!”affermava Alexandre Dumas. E qui osservi degli esseri umani che hanno vissuto: i loro corpi privi dell’epidermide mostrano la struttura muscolare rosacea, le ossa scoperte, gli attacchi tendinei, la rete venosa o arteriosa, i filamenti nervosi, gli organi interni. Si librano nell’aria a passo di danza, come quel giovane con una stupenda catena muscolare esposta in ogni dettaglio… Un altro seduto compostamente a un tavolo di scacchi: passandogli accanto puoi osservarne il cervello completamente visibile… Un altro corpo lanciato in avanti cavalca un cavallo anch’esso sezionato e aperto nella sua superba rosea struttura muscolare… Altri due giocando, rugby gladiators, in una tensione inesprimibile mostrano allo scoperto uno splendore di organi e di muscolatura… Una giovane donna, poi, con ancora il suo bambino nel ventre, ben visibile, pare un fotogramma bloccato di una sequenza di vita. 

Un’immensa pietas ti prende girando in questo spazio, che attraverso una tecnica di conservazione di avanguardia (plastination), presenta più di duecento corpi umani, in una immota vitalità, con gli occhi aperti nel vuoto… E ti risuona nelle tempie la frase appena letta:“Il vostro corpo è l’arpa della vostra anima. Sta a voi trarne una dolce musica oppure dei suoni confusi.”(K.Gibran) L’importanza di questo strumento di vita, “una meraviglia di contraddizioni: semplice e complesso, vulnerabile e resistente, limite delle nostre esperienze e punto di partenza di potenzialità sconfinate”, come suggerisce una scritta, assume ora un risalto impressionante.

Un silenzio sacro regna in queste sale, dove i passi di ogni visitatore avanzano con rispetto. Si è davanti ad esistenze che hanno terminato davanti ai nostri stessi occhi il loro cammino. Ma tutto ciò non è che uno specchio per chi guarda. Perchè“ognuno entra nel mondo con un corpo per mezzo del quale poter sperimentare, realizzare o rischiare ciò che noi stessi scegliamo!”sottolinea un’altra frase. Si contempla, anche, in vitro l’embrione umano alla sua prima settimana, poi alla seconda… alla settima già con i contorni emozionanti di un bébé, fino alla trentatreesima. Una visione concreta, realistica vi accompagna, in cui lo spirito anglossassone sfoggia tutta la sua passione di osservazione e di attacco pragmatico alla realtà. Patologie pedagogicamente esemplificate non mancano, poi, in particolare gli organi colpiti dal flagello del fumo, dell’alcool, dall’infarto cardiaco…

Più avanti, un settore parla di esseri umani centenari e del loro segreto… Il loro mantra è l’ottimismo, si legge accanto. In fondo, comprendi che è quell’amore incredibile e fiducioso nella vita che sostiene a volte un essere, qualsiasi situazione affronti. Tuttavia Abramo Lincoln, sedicesimo presidente degli Stati Uniti, non raggiungendo lui stesso la sessantina, ricorda asciutto qui al visitatore: “Non sono gli anni di vita che contano… ma la vita negli anni!”

Tutto in questo luogo porta a sbattere frontalmente contro il mistero dell’uomo… e della nostra vecchiaia. Ma“nessuno diventa vecchio semplicemente accumulando degli anni, sottolinea lucidamente Samuel Ullman, lo diventiamo disertando i nostri ideali!” Perchè se“gli anni fanno raggrinzire la pelle, spiega, la perdita di entusiasmo lo fa per l’anima stessa.” Interviene anche la saggezza antica del Talmud: “Noi non vediamo le cose come sono, ma le vediamo come siamo.”

E questo fa ricordare i nostri vecchi quando all’alzarsi di buonora salutavano il giorno con un“Siamo vivi, graziaddio!” Stupendo passaggio dalla morte simbolica del sonno alla vita che ricomincia fatto con stupore! Ripetevano, senza saperlo, il senso delle parole di sant’Ireneo di Lione:“La gloria di Dio è l’uomo vivente” Miracolo quotidiano, fattosi oggi spesso banalità. In un luogo come questo, tuttavia, ognuno ne prende coscienza. Drammaticamente.

Visitando la cultura inglese
Appena entrati nel centralissimo quartiere, un elegante cartello nero dai caratteri ricercati vi accoglie cortesemente:“Benvenuti a Westminster!” Subito dopo qualche passo, nello spirito pragmatico degli inglesi noncuranti della bella figura, il vostro sguardo ne incrocerà un altro. Altrettanto elegante, ma più inquietante.“Attenzione, zona di ladri!” Eh sì… il turista, nel cuore di Londra, va informato di tutto, please! Anche se qui un proverbio ricorda: “I ladri più scaltri usano le mani degli altri.” Ed è l’ora di visitare gratuitamente la splendida cattedrale di Westminster, al momento dei vespri o del service, come qui si dice, senza tanti giri di parole. E così, entrando, penserete subito con qualche flash di… rubare anche voi qualche bello scorcio all’interno, ma peccato! Incanalati da uno stretto servizio d’ordine lungo la navata, sarà impossibile accostare i tanti tesori e le tombe illustri che arredano ogni angolo. Non resta che sedersi attorno al coro, pazienti…

 È il Choir of King’s School di Canterbury che appare questa sera in silenzio e va ad occupare gli stalli dei monaci: una schiera di ragazzi in veste rossa, cappa nera, aria seriosa. Tutto è rituale, preciso, solenne. Il sacro si coltiva anche con questo: il senso della precisione, l’amore per il gesto attento, il clima della dignità. Si avverte, così, di essere di fronte a una Presenza, davanti agli occhi di Dio. Mentre le nostre teste roteano attorno per vedere le meraviglie delle volte, la grandiosità della navata, il decoro degli antichi stucchi…

Un canto preciso, dolcissimo si eleva da voci giovanissime, avanzando poi deciso sul tappeto musicale steso dall’organo – una magnifica struttura sospesa a mezz’aria – in un’architettura antica, gotico-medievale. Voci e contesto: un contrasto che ti commuove. Modernità e tradizione, gomito a gomito, infatti, è un’altra costante di questa cultura. L’officiante anglicano, poi, va all’ambone della Parola accompagnato da un alabardiere e dal suo passo cadenzato. Tutto sa di un’etichetta appresa da secoli alla corte, facendo così intuire la presenza di un invisibile Re… Forse, per questo da noi la liturgia è ben diversa, più popolare, nostrana, immersa di parole e di canto. Neanche ci si concede, a volte, quei pochi istanti di vero silenzio assoluto – istanti di eternità – che assaporavo in certe chiese tedesche dopo la comunione. Non sentivi una mosca volare… e così di fronte a una chiesa colma di credenti si spalancavano le porte del mistero.

Nell’uscire da Westminster abbey mostriamo una piccola curiosità riguardo al verdissimo chiostro che si intravede da un lato della navata… oh, sorry!, ci fanno senz’altro entrare, per farci poi uscire per un’altra porta. Appena fuori,“Credi che da noi se un turista volesse rompere le regole, lancio al mio accompagnatore, lo si accontenterebbe così?!” Al pari di Dante, il mio accompagnatore non degna risposta. Sì, qui è un altro mondo: tutto viene risolto pragmaticamente. Si tratta di un’attenzione al concreto, alla vita pratica, al funzionamento delle cose o delle istituzioni. Mettendoci sempre quella dose di distanza, cioè quel pizzico di ritualità che ricorda il senso della realtà, il valore del simbolo.

Come quando si visitano qui vicino le Camere del Parlamento, al termine di un lungo percorso per sale e corridoi. Allineati davanti agli stessi lunghi divani dei parlamentari (non ci sono pompose poltrone individuali!) si ascoltano le tante informazioni. Ma la prima è quella di non sedersi assolutamente. Resistere in piedi! Ogni sera, però, puoi vedere alla TV questi stessi divani, dove ben stretti i parlamentari dibattono come fossero… su una panchina di fronte al mare o sulla tolda di una nave. Il senso dell’uomo di mare è rimasto negli spiriti: far corpo insieme, allora, è essenziale.

 Ed è un gioco di squadra che ci richiama la prima democrazia dell’Europa moderna. Me lo ricordava ancora l’altro giorno Antonietta, giovane architetto, che lavora qui da sei anni. Si trova in un team con un architetto inglese, uno pachistano, un indiano e un coreano. Favoloso! mi assicura. “Saper lavorare insieme ognuno con i propri differenti talenti per progetti mondiali, precisa lei, è esperienza straordinaria, impensabile in Italia.”

Corro con il pensiero a una bella trasmissione sulla BBC: Last Choir Standing, una gara appassionante di corali. Di ogni tipo, musica e stile dallo spiritual, al pop… alla banda vocale dei policeman. Una vera passione qui per 5 milioni di spettatori! E non per nulla questa è la terra dove sono nati i mitici Beatles. Da noi, invece, si adora una voce singola, un’ugola d’oro, un idolo. L’individualismo, è vero, è un altro mondo e porta i suoi frutti, anche straordinari. Purtroppo, non insegna a lavorare insieme ad altri. O ad appassionarsi al bene comune. Ed è un vero peccato!

Renato Zilio missionario a Londra
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